“CAMBIARE NON SI PUO'” DENTRO IL REGIME CAPITALISTA
PER UNA SVOLTA RADICALE DI LOTTA
PER UNA PROSPETTIVA DI RIVOLUZIONE
PER UN GOVERNO DEI LAVORATORI
PORTIAMO ALLE ELEZIONI UN PROGRAMMA ANTICAPITALISTA
L'appello “Cambiare si può per una lista alternativa alle elezioni
del 2013”, si presenta come “una iniziativa politica nuova, e non come
la raccolta dei cocci di esperienze fallite..”. E' una lodevole
intenzione. Disgraziatamente il testo dell'appello ripropone
esattamente, in forma concentrata, tutti i luoghi comuni delle
esperienze fallite del riformismo. Nei loro presupposti teorici. Nella
loro traduzione politica. Persino nel loro vocabolario simbolico.
L'appello rivendica “un'alternativa forte, sobria e convincente alla
politica liberista”. Indica come suo fondamento la Costituzione
italiana del 1948. Propone “il Welfare” come “la strada che ha portato
alla soluzione delle grandi crisi economiche del secolo scorso”. Si
diffonde in un lungo elenco di “possibili” azioni virtuose in fatto di
politiche solidali, di cura dell'ambiente e dei beni comuni, di onesta
amministrazione della cosa pubblica. Propone infine “una nuova
rappresentanza politica, preparata, capace, disinteressata, al servizio
della comunità”.
“CAMBIARE SI PUO'”: L'ENNESIMO APPELLO DEMOCRATICO PROGRESSISTA
( PER CERCARE DI UNIRE DI PIETRO E FERRERO)
La fisionomia d'insieme di questa impostazione è inequivoca: si
tratta di un tradizionale appello democratico progressista, ricalcato su
un'infinità di appelli analoghi circolati negli ultimi 20 anni. Certo
un appello di opposizione a Monti e (oggi) al PD che lo sostiene. Ma del
tutto estraneo sia alla centralità della lotta di classe ( rimpiazzata
dall'impegno di un'indistinta “cittadinanza attiva” ), sia, e tanto più,
ad una prospettiva anticapitalista.
Il capitalismo non è neppure citato nell' appello. L'anticapitalismo
neppure evocato. E non si tratta di lacune letterarie. Siamo in
presenza dell'ennesima versione del vecchio canovaccio del progressismo:
che da un lato fa la sommatoria delle esigenze e domande reali di
trasformazione ( sociali, ambientali, democratiche..), dall'altro le
appende all'albero sempre verde del “Keynesismo”. Spiegando che un nuovo
New Deal, un nuovo roosveltismo, non solo è possibile ma è la vera
“soluzione della grande crisi, come nel 900”. E che dunque un
capitalismo riformato dal volto umano è l'unico orizzonte concreto per
cui battersi.
In definitiva “Cambiare si può” è- letteralmente- l'ennesima riproposizione della “possibile” riforma del capitalismo.
Può essere che questo appello raggiunga il suo vero obiettivo
politico: raggruppare, sotto vesti civiche, un fronte politico
elettorale che vada da Di Pietro a Ferrero, passando per l'arancione di
De Magistris; un nuovo arcobaleno allargato “a destra”, funzionale alla
salvezza o alla riconquista di una rappresentanza parlamentare. Oppure
può essere che alcuni illustri destinatari dell'appello preferiscano
puntare al rientro nel centrosinistra: visto oltretutto che lo stesso De
Magistris ha già rivendicato pubblicamente una prospettiva di
ricomposizione con un possibile governo Bersani.
Su tutto questo vedremo. Quel che è certo, in ogni caso, è che il
contenuto dell'appello è un inganno politico e culturale. Perchè
ripropone esattamente la subordinazione del movimento operaio e di tutti
i movimenti ad un equivoco fallito. Smentito dalla storia e tanto più
utopico e improponibile oggi.
L'UTOPIA DEL RIFORMISMO
Intanto sarebbe bene evitare di rileggere il secolo scorso con la
lente delle proprie illusioni. No: non è stato Roosvelt, Keynes, o il
Welfare ad aver “risolto” la grande crisi capitalistica degli anni 30.
Tanto è vero che la stessa economia americana tornò in recessione nel
37. Fu la guerra mondiale, con le sue gigantesche distruzioni e i suoi
orrori, a rilanciare l'accumulazione capitalistica e a consentire il
boom: il capitalismo rinacque dalle immani rovine che provocò, e solo
grazie a quelle rovine.
E' vero: il New Deal si accompagnò negli USA ad alcune riforme
sociali e il Welfare si diffuse nell'Europa del dopoguerra. Ma fu
possibile solo in presenza di circostanze straordinarie: sul piano
economico l'enorme ricchezza di un capitalismo americano allora
creditore e- in Europa- il grande boom economico innescato dalla
ricostruzione postbellica; sul piano politico, l'esistenza determinante
dell'Unione Sovietica, erede della Rivoluzione d'Ottobre, quale fattore
oggettivo di pressione sulle classi dominanti d'Occidente. Le riforme
furono il sottoprodotto della rivoluzione russa, assai più che dei
“riformisti”.
Come non vedere oggi che quella parentesi storica si è chiusa? Prima
l'esaurimento del boom postbellico, poi il crollo del Muro di Berlino,
hanno segnato una svolta d'epoca senza ritorno. Il capitalismo è tornato
alla normalità del suo declino, annullando lo spazio storico del
riformismo. La grande crisi economica internazionale esplosa nel 2007, e
tuttora irrisolta, ha solo reso macroscopica la verità degli ultimi 20
anni.
Non siamo affatto in presenza, come vorrebbe l'appello, di una
semplice crisi delle “politiche liberiste”, superabile con qualche
rimedio keynesiano. Siamo in presenza della crisi storica del
capitalismo, e del fallimento clamoroso del gigantesco interventismo
pubblico degli Stati a suo sostegno ( il Keynesismo reale, altro che
“liberismo”!). Riproporre il mito liberal progressista di un possibile
New Deal in un quadro capitalistico segnato dalla voragine generale del
debito pubblico verso le banche, dalla feroce concorrenza fiscale tra
gli Stati, dalla competizione sfrenata su un mercato mondiale mai tanto
grande ( di merci, lavoro, capitali), significa vagheggiare un'utopia
senza senso e senza futuro. Di più. Significa alimentare nuovamente
l'illusione di una possibile “borghesia buona” proprio nel momento della
più feroce aggressione dominante contro il lavoro e le vecchie
conquiste sociali. Significa rinnovare l'illusione di possibili “governi
amici”, proprio quando l'esperienza degli ultimi 20 anni ha dimostrato
che tutti i governi sono al servizio del capitale e delle sue
controriforme sociali ( inclusi i Prodi, Jospin, Zapatero, Hollande). E
che ogni forma di coinvolgimento delle sinistre in quei governi ha
segnato il tradimento dei lavoratori e la propria autodemolizione: o
bisogna ricordare, ad esempio, che il più grande regalo alle banche
italiane, con la riduzione dell'IRES dal 34% al 27%, è stato realizzato
dalla finanziaria di Prodi nel 2007, col voto di fiducia del ministro
Ferrero( e persino di Turigliatto)?
La verità è che il capitalismo non ha più nulla da dare ma solo da
togliere, quale che sia il suo consiglio di amministrazione: in Italia,
in Europa, nel mondo. E che ogni battaglia di opposizione e di
resistenza sociale è capace di futuro solo se mette in discussione i
suoi fondamenti.
E' vero dunque, ”cambiare si può”: ma solo sul terreno di una
prospettiva anticapitalistica. E, dunque, di un'azione sociale e
politica che le corrisponda, fuori e contro ogni illusione
“progressista”.
L'ATTUALITA' DI UN PROGRAMMA ANTICAPITALISTA
Paradossalmente sono le stesse istanze di trasformazione poste
dall'appello a richiamare la necessità di quella prospettiva
anticapitalista che la sostanza dell'appello nega; e a porre la
centralità di quell'azione di classe clamorosamente rimossa.
Alcuni esempi.
“Diritto al lavoro” reclama l'appello. Bene. Ma non vi sarà
concretamente alcun “diritto al lavoro” senza, innanzitutto, il blocco
dei licenziamenti. E non vi sarà alcun possibile blocco dei
licenziamenti senza il ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi.
Senza un'azione radicale di massa di occupazione delle aziende che
licenziano, per la loro nazionalizzazione, senza indennizzo e sotto il
controllo dei lavoratori: l'unica risposta alla Fiat, all'Alcoa,
all'Ikea.. che sia pari alla brutale radicalità di quei padroni. O
dobbiamo dirci che i padroni hanno diritto di licenziare gli operai, ma
gli operai non hanno il diritto di rivendicare il licenziamento dei loro
padroni? Peraltro solo la nazionalizzazione sotto controllo operaio, a
partire dalle aziende che licenziano, può realmente consentire un grande
piano del lavoro: che ripartisca fra tutti il lavoro esistente
attraverso la riduzione progressiva dell'orario a parità di paga; che
riconverta ecologicamente le produzioni, conciliando lavoro e
salute(Ilva); che riorganizzi l'intera produzione in funzione dei
bisogni sociali e ambientali contro la logica cinica del profitto. O
davvero possiamo pensare che gli Agnelli e i Riva, le loro proprietà e i
loro manager, siano compatibili con un'alternativa di società?
Oppure.
Rilancio dell'”intervento pubblico a presidio dello Stato sociale,
per il ripristino delle tutele..” chiede l'appello. Benissimo. Ma non vi
sarà concretamente alcun ripristino delle tutele sociali del welfare,
tanto meno la loro necessaria e massiccia estensione, senza l'abolizione
del debito pubblico verso le banche e la loro parallela
nazionalizzazione e unificazione sotto controllo sociale. O vogliamo
pensare che anche solo il ripristino di un sistema pensionistico a
ripartizione, dei fondi tagliati per l'istruzione , per la sanità, per i
servizi pubblici, sia compatibile col versamento annuale di quasi 200
miliardi alle banche ( se si sommano gli interessi sul debito nazionali e
locali)? Peraltro solo la nazionalizzazione delle banche, senza
indennizzo per i grandi azionisti e sotto controllo operaio e popolare
può colpire alla radice la grande evasione fiscale, chiudere i
principali canali della criminalità organizzata, scoperchiare luoghi e
santuari della corruzione. E solo la nazionalizzazione delle banche
sotto controllo sociale può creare le premesse indispensabili di una
pianificazione democratica dell'economia che crei, finanzi, e indirizzi
tanto nuovo lavoro: in fatto di bonifica e risanamento ambientale, di
edilizia scolastica, sanitaria, antisismica, di ricostruzione ed
estensione del trasporto pubblico.. O vogliamo illudere i lavoratori ( e
noi stessi) che tutto ciò sarà possibile all'ombra di Banca Intesa,
Monte dei Paschi e Unicredit?
Tutto ciò riconduce alla necessità della contrapposizione all'Unione Europea. Nodo che l'appello aggira con disinvoltura.
L'appello chiede “la rinegoziazione delle normative europee che
impongono politiche economiche recessive”. Domanda: chi negozia cosa, e
con chi? Non siamo in presenza di “normative” sbagliate di una casa
comune, una sorta di regolamento condominiale da correggere. Siamo in
presenza dell'Unione Europea dei capitalisti e dei banchieri, dei loro
governi e dei loro Stati, impegnata a scaricare la propria crisi sulle
condizioni di vita della classe operaia e delle masse popolari, ostaggi e
prigionieri di una costruzione nemica, edificata storicamente contro di
loro. Davvero pensiamo che l' Unione dei capitalisti possa farsi
“sociale e democratica” per via di un “negoziato” con le sue classi
dirigenti? E chi sarebbe poi il “nostro” soggetto “negoziatore”? Un
governo Bersani.. col consiglio di De Magistris e Ferrero? E' ora di
archiviare le fantasie e le illusioni. Non si tratta di “rinegoziare” il
regolamento carcerario della Unione dei padroni. Si tratta di rompere
le gabbie della prigione e di rovesciare i carcerieri, nella prospettiva
storica degli Stati Uniti socialisti d'Europa: di una Unione Europea
dei lavoratori finalmente liberata dal capitalismo, e per questo capace
di porre le proprie immense risorse produttive, scientifiche,
tecnologiche al servizio dell'emancipazione sociale delle grandi masse
del vecchio continente. In un rapporto di sostegno e solidarietà, al di
là di ogni frontiera, con le lotte dei lavoratori e dei popoli oppressi
di tutto il mondo: a partire dal popolo palestinese, e dalla sua eroica
lotta di liberazione contro lo Stato Sionista d'Israele.
IL REALISMO DELLA RIVOLUZIONE
Solo un governo dei lavoratori può realizzare un simile programma.
Solo un governo che cacci assieme a Monti, e ai partiti corrotti che lo
sostengono, anche gli industriali e i banchieri che li finanziano. Che
rompa con le istituzioni burocratiche di questo Stato e i suoi corpi
repressivi. Che si appoggi sulla forza e l'organizzazione diretta dei
lavoratori. Che realizzi in definitiva la democrazia vera: il potere
della maggioranza della società di decidere sul proprio futuro.
Un programma “troppo radicale”? E' tanto radicale quanto quello dei
padroni e dei loro governi contro i lavoratori. Non si può cambiare il
mondo se si è meno radicali delle classi dominanti che lo vogliono
conservare.
Un programma “troppo distante dal livello di coscienza delle masse”?
Ma si tratta di sviluppare la coscienza delle masse sino alla
comprensione della verità, che è rivoluzionaria, non di rimuovere la
verità per adattarsi alla coscienza, imbottendola per di più di nuove
illusioni riformiste.
Un programma “giusto, ma impossibile”? E' falso. Quando milioni di
lavoratori e di sfruttati ritrovassero la fiducia nella propria forza,
tutto diverrebbe possibile. Dobbiamo incoraggiare la ribellione degli
sfruttati, o concorrere anche noi alla predicazione disfattista facendo
nostri gli argomenti ( interessati) dell'avversario?
Perchè questo, in definitiva, è il bivio vero. Non quello tra il
“realismo” degli obiettivi “possibili”, e il “massimalismo” astratto di
una “impossibile” rivoluzione. Ma tra il realismo di una rivoluzione
difficile e l'utopia di un riformismo impossibile. Che si traduce, al di
là delle parole, nella rassegnazione all'esistente.
IL PROGRAMMA DELLA RIVOLUZIONE ALLE ELEZIONI
Ricondurre tutte le lotte immediate ad una prospettiva di
rivoluzione sociale. Sviluppare in ogni mobilitazione la coscienza della
necessità della rivoluzione come unica via di liberazione, è un compito
imposto dallo scenario storico del nostro tempo.
Il Partito Comunista dei Lavoratori si batte da sempre, in ogni
mobilitazione, per questa prospettiva. Per questo si batterà con tutte
le proprie forze per usare anche le prossime elezioni politiche come
megafono rivoluzionario. Contro i portavoce dei padroni, di centrodestra
e di centrosinistra. Contro i demagoghi populisti, vecchi e nuovi. Ma
anche contro gli eterni illusionisti di un riformismo senza riforme.
Di certo, il più piccolo passo avanti della coscienza
anticapitalista degli sfruttati, vale mille volte di più su scala
storica di ogni considerazione di alchimia elettorale.
Ogni più piccolo passo avanti della costruzione del partito
rivoluzionario, vale mille volte di più per la liberazione dei
lavoratori di ogni calcolo istituzionale ( magari infondato).
Per questo chiediamo e chiederemo a tutti i rivoluzionari, a tutte
le avanguardie ovunque collocate, a tutti gli attivisti coerenti della
classe operaia e dei movimenti di lotta, di raccogliersi attorno al
Partito Comunista dei Lavoratori. Di aiutare la sua raccolta firme in
tutta Italia per conquistare il diritto di presenza alle elezioni di un
programma anticapitalista rivolto a milioni di proletari e investito
nelle loro lotte. Di sostenere, ognuno con le proprie disponibilità, la
costruzione del partito della rivoluzione.
MARCO FERRANDO
Portavoce nazionale PCL
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