30/01/15

TESTO VOLANTINO DEL MESE DI FEBBRAIO DEL PCL

                        DALLA GRECIA ALL' ITALIA: RIBBELLARSI SI PUO'!!!!

I lavoratori e le lavoratrici, i e le disoccupat@, i settori poveri della popolazione greca si sono ribellati alle politiche di austerità del capitale finanziario! Anni di mobilitazioni contro le poli-tiche dominanti hanno trovato un primo riflesso nelle urne! Il voto a Syriza è stato questo: un voto per la svolta. Ora la lotta dovrà continuare, senza subordinarsi al compromesso col ca-pitale finanziario, come Tsipras persegue. La vittoria del 25 gennaio potrà generare una svol-ta solo rompendo con gli affamatori del popolo greco, tagliando innanzitutto il cappio del debito pubblico (attraverso il suo annullamento), oltre che nazionalizzando le banche. Una rottura col capitalismo greco ed europeo sarebbe uno straordinario esempio per i lavoratori e le lavoratrici, gli sfruttati di tutta Europa. Costruire il partito della rivoluzione anticapitalista è più che mai all'ordine del giorno in Grecia. I nostri compagni greci del Partito operaio rivo-luzionario -(EEK)- da sempre in prima fila nelle lotte- sono impegnati in questa direzione.
La Grecia parla ai lavoratori ed alle lavoratrici del nostro paese. In Italia, a differenza che in Grecia, le sinistre si sono coinvolte nei governi e nelle politiche di austerità (Prodi). E così si sono “suicidate”. Proprio quando è cominciata una grande e lunga crisi, nel 2007/08, si è fa-vorito il disorientamento fra i lavoratori, le lavoratrici e i giovani, spingendo vasti settori di sfruttati ad affidarsi a ciarlatani populisti. O ciarlatani di governo come Renzi, dominato dalla propria ambizione di potere, che distrugge le conquiste storiche dei lavoratori e delle lavora-trici. O ciarlatani reazionari di opposizione, come Grillo e Salvini, impegnati ad abbindolare i lavoratori e le lavoratrici con lo specchietto anti euro: come se il problema fosse la moneta e non quel potere dei capitalisti e dei banchieri che essi vogliono preservare.
Ora il voto della Grecia suona la “sveglia” ai lavoratori ed alle lavoratrici del nostro paese! Lottare si può. Ribellarsi si può. Anche in Italia. Nulla impedisce la ribellione alle politiche di rapina che ci vengono imposte dai custodi del capitalismo italiano ed europeo! Nulla impedi-sce di scrollarsi di dosso i ciarlatani truffatori che speculano sulle guerre fra poveri !
Ma occorre costruire un'altra direzione del movimento operaio.
Le sinistre di casa nostra, già responsabili del disastro, cercano di aggrapparsi al successo di Syriza per ricostruire una sinistra del centrosinistra. Una sinistra più forte, ma per cercare di allearsi col PD di Renzi. E' l'eterno gioco per cui “tutto cambia senza che nulla cambi”.
E' necessario costruire una sinistra vera, che assuma sino in fondo le ragioni del lavoro, che rompa con tutti gli avversari dei lavoratori e delle lavoratrici, a partire da PD; che lotti per ro-vesciare la dittatura del capitalismo e imporre un governo dei lavoratori: l'unico vera alterna-tiva, in Italia, in Grecia, e dovunque.
Il Partito Comunista dei Lavoratori (PCL) è impegnato, in ogni lotta, per questa prospettiva.


Partito Comunista dei Lavoratori

22/01/15

TESTO VOLANTINO DEL PCL:ANALISI DELLA SINISTRA IN ITALIA ED IN GRECIA

QUALE SINISTRA  PER COSA? SINISTRA ITALIANA E SINISTRA GRECA

La natura del PD renziano e il suo attacco frontale alle ragioni del lavoro hanno aperto un cantiere politico alla sua sinistra. I lavori in corso sono numerosi, quanto i capo mastri o aspiranti tali. Ma cosa si vuole costruire? Le risposte sono diverse: un altro partito di “vero centrosinistra”, una “sinistra” di un centrosinistra da ricostruire, una sinistra “alla Syriza”... Più chiara è la volontà comune: rifare una sinistra capace di “prendere i voti” e di svolgere un ruolo politico significativo.
L'intento è comprensibile. Lo spazio sociale e politico esiste. Ma la confusione ci pare regni sovrana.
Il vuoto a sinistra che si è prodotto in Italia non ha paragoni in Europa. In nessun paese europeo si registra una crisi tanto profonda della rappresentanza politica del lavoro, quali che siano i suoi caratteri e le sue politiche. E' un caso? No. In nessun altro paese europeo la sinistra si è tanto compromessa, e per tanto tempo, con le politiche antioperaie degli avversari dei lavoratori.
Rifondazione comunista, bacino unitario della sinistra politica per 15 anni, ha partecipato per cinque anni ai governi di centrosinistra o alle loro maggioranze: la prima volta fra il 96/98, la seconda a pieno titolo fra il 2006/2008. Nel primo caso si è compromessa nel votare l'introduzione del lavoro interinale, il varo delle maggiori privatizzazioni di tutta l'Europa continentale, le finanziarie “lacrime e sangue” per “entrare in Europa”. Nel secondo caso si è compromessa, ancor più direttamente, nell'abbassamento delle tasse sui profitti (l'Ires dal 34% al 27%), nella preservazione delle leggi sulla precarizzazione del lavoro, nella continuità delle missioni di guerra.
In entrambi i casi questa politica ha non solo colpito il movimento operaio ma ha contraddetto enormi aspettative e speranze che attorno a quel partito si erano raccolte. Sino a distruggerlo.
Ci pare curioso che di questa tragedia non si sia tratto un bilancio. Ancor più curioso che gli stessi gruppi dirigenti responsabili di quella tragedia si candidino a “ricostruire la sinistra” che hanno distrutto. Senza sentire l'esigenza di farsi da parte. Tanto più che negli anni che hanno seguito il crollo del PRC, i responsabili di quel crollo, diversamente collocati, hanno perpetuato in forme diverse la stessa vocazione politica compromissoria.
I gruppi dirigenti di ciò che resta del PRC, scaricati dal PD, hanno preservato ovunque possibile la coalizione col centrosinistra sul piano locale, in Regioni e città. Il sostegno garantito per 10 anni alla giunta ligure di Burlando, e ai suoi tagli alla sanità pubblica, è emblematico. Cofferati è uscito da un PD ligure sostenuto dai voti del PRC di Ferrero.
I gruppi dirigenti di Sinistra Ecologia Libertà hanno custodito la propria collocazione di sinistra del centrosinistra in tutta Italia. Si sono prima subordinati a Bersani, nonostante il suo sostegno a Monti e alla sua macelleria contro lavoro e pensioni. Poi hanno presentato l'emergente Renzi come “speranza della sinistra” per cercare di conservare l'alleanza. Infine hanno scoperto che Renzi è “la destra” quando sono stati scaricati dal renzismo. Non senza continuare a preservare le alleanze di governo con... “la destra” PD nelle amministrazioni locali di Regioni e Città. Anche in quelle che licenziano i lavoratori e si contrappongono agli stessi sindacati (da Milano a Genova a Roma).
Bene. Qual'è oggi la prospettiva politica che avanzano? Un nuovo centrosinistra. Se le parole hanno un senso una nuova alleanza col PD. O meglio, un qualche accorpamento oggi con la “sinistra del PD” (non è chiaro quale) per poter rilanciare con maggior forza una alleanza col PD domani. ►
Non sappiamo quanto sia realistica questa visione. Ma chiediamo: davvero il futuro della sinistra italiana ha nel governo col PD, prima o poi, il proprio destino? Non è stata sufficiente l'esperienza delle compromissioni di governo già consumate negli ultimi 15 anni, per di più in una situazione e in rapporti di forza assai meno deteriorati?
“Fare una Syriza italiana” sembra essere il mantra più diffuso. Appare ragionevole: una sinistra che prende voti, addirittura vincente, e “contro l'austerità”. Invece si tratta dell'ennesima illusione. Che non solo non chiarisce gli equivoci, ma li ripropone intatti l'uno dopo l'altro.
Innanzitutto chiediamoci: perchè la grande ascesa di Syriza? E' un premio elettorale a “una sinistra unita e poco litigiosa”? No. Syriza è una costellazione di 13 organizzazioni divise su tutto, dentro una sinistra greca anch'essa divisa. Il successo di Syriza è il frutto della grande radicalizzazione di massa dei lavoratori e della gioventù greca contro le politiche dominanti. Questa radicalizzazione ha trovato in Syriza una sinistra non compromessa nelle politiche di austerità (a differenza di quella italiana) e quindi un canale di espressione della propria domanda di svolta. In Italia il riflusso del movimento operaio negli anni della grande crisi è stato innescato dalla concertazione politica e sindacale attorno a Prodi. Ne ha beneficiato il populismo reazionario di Grillo e Salvini da un lato o il populismo bonapartista di Renzi dall'altro. In Grecia l'ascesa di massa contro il governo del PASOK ha trovato una sinistra di opposizione e l'ha usata. Ne ha beneficiato Tsipras.
Ma la risposta che Tsipras dà alla domanda di massa che a lui si rivolge risponde all'esigenza di una svolta vera? La nostra previsione è precisa: no, non risponde a quella esigenza.
Tutto lo sforzo di Tsipras sembra quello di tranquillizzare il capitale finanziario europeo. Nessuna rottura con la UE. Nessuna rottura con la Nato. Nessun annullamento del debito pubblico greco. Nessuna nazionalizzazione delle banche. Salvaguardia dell'apparato dello Stato. La proposta è quella di un compromesso sul debito pubblico che ne riduca il peso e perciò stesso ne garantisca il pagamento. Il Financial Times lo ha definito un programma ragionevole. Ma è possibile realizzare la svolta sociale radicale che il dramma greco richiede rispettando il capitalismo greco e il capitalismo europeo? Una parte di Syriza, in dissenso con Tsipras, ritiene di no. E ha ragione.
Il nodo di fondo, in Grecia come in Italia, resta quello di sempre.
Il capitalismo ha fatto fallimento. Ogni formula di governo che in un modo o nell'altro si rassegni ad amministrare il capitalismo, dentro la prigione della sua crisi, non potrà garantire alcuna reale svolta agli sfruttati, indipendentemente dai voti che prende. E finirà prima o poi col compromettere la stessa sinistra e la sua credibilità. Magari spianando la strada alla destra, anche la più pericolosa.
Restiamo inguaribilmente convinti che l'unica sinistra capace di rispondere alla crisi del capitalismo sia una sinistra classista e rivoluzionaria. Classista perché schierata sempre e comunque dalla parte dei lavoratori contro la classe dominanti, i suoi partiti, i suoi governi. Rivoluzionaria, perché mirata a ricondurre ogni lotta di massa alla prospettiva di un governo dei lavoratori, quale unica vera alternativa.
Costruire in ogni lotta la coscienza della necessità di una rottura anticapitalista è il senso stesso della costruzione del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL) in Italia, del Partito operaio rivoluzionario (EEK) in Grecia, di una Quarta Internazionale rifondata in Europa e nel mondo.

                                                                                           Partito Comunista dei Lavoratori

16/01/15

VOLANTINO POLITICO DEL MESE DI GENNAIO DEL PCL

                                VOLTARE PAGINA

Il nuovo anno si apre con una sconfitta: l'articolo 18 è abrogato. Il governo e il PD hanno cancellato una conquista strappata con l'autunno caldo (1969). Renzi è riuscito dove aveva fallito Berlusconi. Licenziamenti senza giusta causa, demansionamento e controllo a distan-za, contratti a termine senza causale (Poletti):, è una condizione di lavoro diversa. Ogni “as-sunto” sarà molto più ricattabile. L'estensione ai licenziamenti collettivi peggiora il quadro. Confindustria ha ragione di brindare.
Il successo incoraggia l'arroganza. Colpiti i lavoratori e le lavoratrici del privato, Renzi e-stende l'attacco al pubblico. Il governo infatti procede con la tecnica del carciofo. Prima ha colpito le fabbriche, dicendo ai pubblici che non era il caso di scioperare per loro. Poi indi-rizza il colpo contro i pubblici (con il contratto bloccato da anni), cercando il consenso delle fabbriche contro “i privilegiati”. A tutti vende l'immagine di uomo del fare. Per il quale confe-ziona una riforma elettorale con cui controllare tutte le leve del potere. E' il progetto reazio-nario più pericoloso dal dopoguerra: un bonapartismo confindustriale coi voti del popolo.
 
OCCORRE ALZARE UN ARGINE, COSTRUIRE UNA OPPOSIZIONE VERA.
 
Lo sciopero del 12 dicembre (CGIL e UIL) si è dimostrato insufficiente. Una giornata di lotta “una tantum”, tradizionale, senza piattaforma, senza continuità, senza prospettiva, non pote-va ottenere risultati. Non si può sperare nel dialogo con un governo che vuole lo scontro. Occorre voltare pagina: mettere in campo una forza uguale e contraria, con la volontà di vin-cere. E' necessaria una piattaforma generale unificante, che rivendichi non solo i diritti abro-gati, ma la ripartizione fra tutti/e del lavoro esistente, la cancellazione della precarietà, un ve-ro salario ai ed alle disoccupati/e, il rinnovo dei contratti, un grande piano di nuovo lavoro fi-nanziato dalla tassazione progressiva dei grandi patrimoni, profitti, rendite. E’ necessaria una forza di massa per imporre questa piattaforma, una mobilitazione prolungata che punti a bloccare il Paese. E’ necessaria un’assemblea nazionale di delegati/e eletti nei luoghi di lavo-ro, che decida piattaforma e forme di lotta, che guidi democraticamente questa battaglia.
Il PCL si batte e si batterà ovunque per questa svolta. Il governo ha vinto una battaglia im-portante, non la guerra. La guerra è la lotta di classe. 16 milioni di lavoratori e lavoratrici di-pendenti sono una enorme forza. Ma sono circondati da avversari. Partiti che rappresentano i capitalisti amici di Renzi. Ciarlatani reazionari (Salvini e Grillo), che inzuppano il pane nella guerra fra poveri a tutto beneficio dei padroni. “Sinistre” che dicono agli operai che non con-tano nulla, e che devono aspettare il capitalismo “sociale e democratico”. Quello che non verrà mai. Occorre dare alla classe lavoratrice un suo partito indipendente, che le dia co-scienza della sua forza, lavori alla sua unità, sia contrapposto al capitalismo, lotti per un go-verno dei lavoratori.
Il PCL è ovunque impegnato a costruire questo partito di classe, anticapitalista e rivoluziona-rio.

Partito Comunista dei Lavoratori

10/01/15

AST – Hanno capitolato i sindacati, non i lavoratori comunicato area"sindacatounaltracosa" opposizione interna cgil

Pubblichiamo un articolo di Paolo Brini (comitato Centrale Fiom-Cgil)

Accordo AST: hanno capitolato i vertici sindacali, non i lavoratori.
“Era il miglior accordo possibile. Di più non era possibile ottenere altrimenti l’azienda avrebbe rotto il tavolo”. Queste parole usate durante le assemblee svolte giovedì 4 dicembre dai rappresentanti di Fim-Fiom-Uilm-Ugl per giustificare l’ipotesi di accordo siglata la sera prima, più di ogni altra sintetizzano il senso dell’esito della vertenza. Pur essendo in presenza di una lotta esemplare e senza precedenti negli ultimi anni da parte dei lavoratori. Nonostante uno sciopero ad oltranza che andava avanti da oltre 35 giorni, si è permesso ancora una volta che a tenere in mano il pallino della partita fosse il padrone perchè terrorizzati che potesse “rompere il tavolo”.
Il risultato di questa paura è stato la firma di un accordo che è nella sostanza quello stesso lodo Guidi respinto due mesi fa con in più un formale quanto aleatorio impegno dell’azienda a tener in vita entrambe le produzioni (caldo e freddo) per 4 anni. Non è di certo un caso se nelle assemblee nessuno davanti ai lavoratori AST si sia azzardato a usare toni trionfalistici ma ci si è limitati ad un più caustico “l’accordo è dignitoso”…e chi conosce il sindacalese sa bene cosa si intende con questo genere di espressioni.
Qualche settimana prima dell’intesa il compagno Landini, segretario della Fiom, aveva perentoriamente e giustamente dichiarato “Non possiamo accettare una piattaforma che prevede licenziamenti e diminuzione dei salari”. Ancora qualche giorno fa, durante l’ultimo Comitato Centrale ad accordo ormai firmato, egli ha ribadito che l’accordo non prevede né esuberi né riduzioni delle retribuzioni.
I testi e i fatti però stanno a dimostrare l’esatto contrario.
Che l’accodo faccia acqua da tutte le parti lo ammettono i sindacati stessi. Neanche 10 giorni dopo la firma, i segretari locali di Fim-Fiom-Uilm sono stati costretti a dichiarare che quello dell’azienda è “complessivamente un atteggiamento di potenziale inadempienza rispetto a quanto discusso e definito in sede ministeriale” (Umbria24 del 11/12/2014).
Una volta ottenuto il suo obbiettivo principale, cioè la fine dello sciopero a oltranza, l’azienda ha da subito iniziato a fare quello che ha voluto. Ma da un padrone che ha più volte dimostrato di non avere scrupoli cosa altro ci si poteva aspettare in queste circostanze? Per questo i vertici sindacali hanno responsabilità ancora più gravi sia per aver accettato questo accordo e sia per aver posto fine alla lotta.
Esuberi e riduzione del salario
L’accordo siglato al ministero prevede una mobilità su base volontaria per 140 lavoratori, che sommati ai 150 che già avevano accettato l’incentivo all’esodo aziendale fanno un totale di 290 posti di lavoro in meno. Questo numero è esattamente identico a quello proposto nel lodo Guidi  che all’epoca venne respinto dai sindacati perché, si diceva, con 290 lavoratori in meno di fatto l’azienda avrebbe iniziato un percorso inesorabile verso la dismissione. Verrebbe da chiedersi come mai il 3 dicembre si è accettato quello che si è rifiutato l’8 ottobre.
Ma la beffa è ancora più grande se si tiene presente che ad oggi il numero di coloro che se ne sono andati è arrivato attorno ai 400. Infatti al momento del referendum si è constatato che il numero dei dipendenti AST era già sceso sotto ai 2400 soglia ritenuta minima ed invalicabile che i vertici aziendali avevano garantito non voler ulteriormente ridurre. Al 16 dicembre si contavano 2389 dipendenti. Oggi sono ancora meno e la tendenza è a diminuire ancora. Come tutto ciò sia possibile lo racconta candidamente il responsabile del personale AST, Arturo Ferrucci, confermando in data 11 dicembre che il programma di uscita incentivato (che è altra cosa dalla mobilità siglata in sede ministeriale e che ovviamente è gestito interamente ed unilateralmente dall’azienda) resterà aperto fino al 3 aprile 2015. In queste condizioni non è un caso che su una delle due linee a caldo i turni siano stati ridotti da 21 a 15. Il paradosso è che fu proprio l’opposizione degli operai a questa riduzione di turni che diede inizio ai 35 giorni di sciopero ad oltranza.  A ottobre questo provvedimento aziendale era ritenuto giustamente l’anticamera della chiusura delle lavorazione a caldo e quindi l’inizio della fine dello stabilimento, perché oggi non più?
Sul versante salariale poi, la questione ha assunto dinamiche a dir poco grottesche. Come si possa sostenere che i livelli retributivi non sono stati toccati quando l’accordo prevede una riduzione dei costi per la contrattazione aziendale dai 17 milioni di euro precedenti a circa 8,2 milioni attuali è un mistero. Cosa invece l’azienda intenda, lo ha prontamente chiarito. Infatti da un lato sono spariti dal salario aziendale sia le voci PRA (parte consolidata) che PPS (parte variabile) con una perdita trimestrale che va dai 180 ai 300 euro a testa per lavoratore. In più sono sparite anche le quote di salario fisso legate alla professionalità (il cosiddetto “0,5”). In tutto questo il paradosso è che i vertici sindacali si stanno lamentando pubblicamente di come l’azienda non stia mantenendo la promessa fatta sul tavolo ministeriale di riconoscere ai lavoratori almeno i 180 euro del premio. Peccato che questa “promessa” sia stata fatta solo verbalmente. C’è bisogno di scomodare i latini per ricordare che “verba volant”? L’azienda ha provveduto a ribadire che quei soldi erano parte di un accordo “vecchio e ormai disdettato” . Dal suo punto di vista in effetti non fa una piega. Viene piuttosto da chiedersi da quando in qua un sindacato accetta come valide le promesse dei padroni senza metterle per iscritto. Se si pensa che sul salario questo sia tutto e che almeno il “vecchio” premio di 723 euro erogato a luglio di ogni anno resti invariato, fisso e sicuro, ci si sbaglia di grosso. L’azienda precisa prontamente che “il nuovo accordo prevede il pagamento, a luglio 2015, di una somma tutta da definire” (Umbria24 13/12/2014). In effetti, se si legge con attenzione il testo siglato il 3 dicembre in merito, si noterà che quello che prima era un “Premio di Produzione” ora è stato trasformato in un “Premio di Produttività”. In sindacalese purtroppo i termini sono molto importanti e soprattutto non sempre sono sinonimo, anzi quasi mai.
Abbandono di precari e lavoratori delle ditte esterne
Un altro punto grave dell’intesa è la totale rinuncia a qualsiasi accordo di salvaguardia per i lavoratori delle ditte esterne. Il testo si limita infatti a trascrivere quanto previsto dal CCNL metalmeccanici, il quale al di là di impegni verbali e buoni propositi non garantisce nulla ai dipendenti delle ditte appaltatrici.
Fin da principio la lotta per la difesa delle acciaierie di Terni è stata portata avanti fianco a fianco dai dipendenti AST e dai dipendenti delle 26 ditte esterne operanti nel sito. Durante ogni fase i vertici sindacali hanno garantito che la vertenza sarebbe stata una sola e unica per tutti. Alla fine invece le cose sono andate in maniera diametralmente opposta. Il mancato inserimento della clausola di salvaguardia avrà ora delle conseguenze drammatiche per quei lavoratori. Thyssen ha già avviato trattative al ribasso con ciascuna ditta esterna per ottenere una riduzione dei costi di almeno il 20% a partire da settembre 2015. Ciò significherà senza dubbio ricatti, perdita di posti di lavoro nonché un pericolo enorme di infiltrazione di ditte legate alla malavita organizzata. Non è un caso se tra i 1200 dipendenti degli appalti, ad un referendum che per loro aveva valore solo “consultivo” (aggiungendo così al danno la beffa), si sono presentati al voto solo in 173, ovvero il 15%…e Cgil-Cisl-Uil locali hanno anche avuto il coraggio di esprimere “soddisfazione per quello che è un percorso nuovo” (Umbria24 19/12/2014).
Anche per tempi determinati e apprendisti non vi è nulla di certo. Il testo si limita laconicamente a scrivere che essi “non sono considerati ai fini della determinazione dell’esubero strutturale dell’azienda”. Decisamente troppo vago per essere una rassicurazione di rinnovo dei loro contratti.
Quali garanzie di investimenti?
Il grande fumo negli occhi di questo accordo sarebbero le garanzie avanzate dall’azienda di conservare il sito produttivo di Terni e anzi di rilanciarlo. In realtà l’impegno da parte aziendale di investire in 4 anni circa 130 milioni di euro complessivi risulta davvero uno specchietto per le allodole. Non solo perché non vi è alcun dettaglio su come verranno spesi questi soldi, ma soprattutto perché questa cifra è palesemente insufficiente. Chiunque sia nel settore sa che quelle cifre bastano a malapena per la gestione ordinaria dell’impianto e che la mole di denaro necessaria per fare davvero investimenti di rilancio è ben altra. È la stessa storia di Terni a dimostrarlo. Quando nel 2004 si dismise la lavorazione del magnetico, per rilanciare lo stabilimento furono spesi almeno 600 milioni di euro. Non solo. Sul capo della AST pende ora la spada di Damocle di una indagine per disastro ambientale che se confermata, come tutti i rilevamenti dimostrano, dovrebbe portare l’azienda a impiegare quantità enormi di denaro per rimediare ad una situazione che se non è paragonabile a quello dell’ILVA a Taranto poco ci manca.
Infine, la domanda più banale ed elementare che sorge spontanea è la seguente: come si può pensare di rilanciare uno stabilimento nel quale si sta accettando di allontanare ben 400 dipendenti senza avere alcuna intenzione di rimpiazzarli?
Non è certo un caso se la rete commerciale del sito ternano verrà gestita direttamente dalla sede tedesca e se si è avviata una diaspora di dirigenti aziendali culminata con le dimissioni di Luca Italia che nella struttura commerciale di AST era una figura chiave. Come si può pensare davvero, in una logica capitalista, di rilanciare l’acciaieria umbra senza una vera struttura commerciale? Semplicemente non si può. Punto e basta.
Se tutto questo non bastasse a gettare ancora più benzina sul fuoco sono arrivate le dichiarazioni dell’amministratore delegato di Thyssen, Heinrich Hiesinger. Non più tardi del 22 novembre, sul giornale Suddeutsche Zeitung, l’AD ha affermato che “il gruppo acciaio Thyssen non esiste più” avanzando la possibilità concreta che il gruppo ceda il settore siderurgico al migliore offerente con conseguenze così preoccupanti per tutti i dipendenti che pure gli operai tedeschi del sito di Duisburg sono scesi in sciopero!
Come non tener conto di tutto questo in una trattativa che si è chiusa due settimane più tardi? Come poter credere alle promesse ed alle favole di un’azienda che ha dimostrato in ogni momento di non essere minimamente interessata alla produzione o al destino dei lavoratori ma solo ai propri profitti?
Quale alternativa?
Dopo questa lunga analisi non possiamo che ritenere francamente fuori luogo i toni trionfalistici usati dalla Fiom per descrivere questo accordo. Per affermare la bontà dell’accordo si sbandiera l’esito del referendum che ha visto al voto l’80% dei dipendenti AST e una vittoria schiacciante dei “sì”. Pur rispettando e riconoscendo l’esito della consultazione, ci permettiamo di far rilevare che quando si è chiamati a scegliere tra un accordo per 290 esuberi “volontari” e un non accordo per 550 esuberi imposti dall’azienda è facile prevedere l’esito della consultazione. Il peso del ricatto e della pressione aziendale, una volta terminato lo sciopero, ha fatto il resto.
Non possiamo nemmeno accettare che ci si dica che criticare questa intesa significa mancare di rispetto alla dura lotta dei lavoratori della Thyssen. Sostenere queste argomentazioni è non solo strumentale ma fuorviante. In questo modo semplicemente si vuol rifiutare di discutere del merito. É proprio perchè riteniamo la lotta degli operai ternani meravigliosa ed esemplare che critichiamo questo accordo. Tanto eroismo e tanto coraggio meritava una conclusione ben migliore di questa!
A meno che non ci si dica appunto, come detto ai lavoratori in assemblea, che non era possibile ottenere di più. Allora si pone la questione di fondo di tutta la vertenza. C’erano alternative a un accordo che ha avuto come unico effetto quello di fiaccare il fronte di lotta operaio?
La risposta che fin dall’inizio abbiamo provato a dare è che sì, un’alternativa, una sola, c’era eccome. Quella di occupare davvero la fabbrica (perché al contrario di quello che pensa il compagno Landini, occupare è ben diverso che presidiare ad oltranza i cancelli dall’esterno). Usare l’autogestione come forma di lotta volta a dimostrare che gli operai non hanno bisogno del padrone per mandare avanti una fabbrica. Rivendicarne l’esproprio senza indennizzo e la nazionalizzazione sotto controllo operaio.
Più volte ci è stato detto che siamo dei sognatori, che tutto questo non sarebbe stato possibile. Alcuni avanzando argomentazioni “tecniche” perchè occupare avrebbe posto il problema della sicurezza e salvaguardia degli impianti. Altri avanzando la sempre verde tesi, dall’alto della propria saccenteria, che gli operai non sarebbero stati in grado di occupare la fabbrica perchè troppo immaturi politicamente. A queste argomentazioni, prima che nel merito, rispondiamo dicendo che è davvero mancanza di rispetto verso i lavoratori nascondere se stessi e le proprie paure dietro ai presunti limiti della classe operaia.
Da un punto di vista tecnico, sono 130 anni che i lavoratori di Terni mandano avanti l’acciaieria, affrontando e risolvendo anche i problemi della sicurezza. Se la fabbrica fosse stata occupata, i lavoratori avrebbero semplicemente continuato a fare quello che hanno sempre fatto da un secolo a questa parte.
Da un punto di vista del livello dello scontro, come si può pensare davvero che lavoratori che hanno avuto il coraggio di sequestrare per 16 ore l’AD Lucia Morselli nel suo ufficio e di scioperare ad oltranza per oltre un mese non avessero la coscienza o il coraggio per occupare la fabbrica? Se vogliamo essere davvero sinceri, oltre ad ammettere che in maniera neanche troppo sotterranea questa discussione è stata ben presente tra gli operai, l’ora X per occupare, l’occasione per prendere lo stabilimento c’è stata eccome. Quando? La notte del 11 novembre quando dopo l’ennesimo incontro andato a vuoto al MISE, duemila operai si sono riversati su viale Brin dando fuoco a portinerie e scatenando una rivolta senza precedenti. Sarebbe stato sufficiente che un dirigente della Fiom con un minimo di autorevolezza ai loro occhi intervenisse per dire di occupare, e oggi saremmo di fronte ad un altro scenario. Certo anche la Fiom avrebbe dovuto assumersi la responsabilità politica di questa azione. Non avrebbe potuto e dovuto sottrarsi a un tale compito, altrimenti a cosa serve un sindacato di classe?
Il punto è che invece i vertici sindacali hanno sempre voluto rifuggire questa discussione. Piuttosto che parlare di occupare la fabbrica, il 12 novembre si è persino preferito portare i lavoratori ad occupare la A1!
Inutile dire che la AST occupata, nel momento in cui si stavano svolgendo le lotte contro il jobs act, avrebbe cambiato letteralmente i rapporti di forza a livello generale e Terni sarebbe diventato il punto di riferimento ed il modello per tutti i lavoratori in lotta.
Certo, questo sviluppo avrebbe avuto anche un significato politico ben preciso. Occupare la fabbrica avrebbe significato mettere in discussione la proprietà privata. Avrebbe cioè messo in discussione chi comanda in fabbrica e quindi avrebbe portato, su un piano generale, a mettere in discussione chi comanda nella società. Se i padroni o gli operai. Ma proprio questo è il senso vero anche di questa battaglia. Con l’attuale livello di crisi le contraddizioni sociali, politiche ed economiche sono tali che ad ogni vertenza il movimento operaio si trova davanti ad un bivio. O si mettono in discussione le regole del gioco e quindi il mercato e la proprietà privata o si capitola alla volontà del padrone.
Ci auguriamo che la lotta degli operai di Terni rappresenti un patrimonio e una lezione preziosa per tutti e che tutti traggano le necessarie conclusioni dal suo epilogo, soprattutto in Fiom. Per parte nostra non possiamo che ringraziare dal profondo questi lavoratori per la quantità innumerevole di cose che ci hanno insegnato con il loro esempio.

07/01/15

Attentato di Parigi: i compagni del PCL accanto a "Charlie Hebdo", in guerra contro ogni fondamentalismo religioso. Ora ammazzateci tutti.

In solidarietà con tutte le vittime dell'infame attentato di Parigi di oggi 7 gennaio 2015, pubblichiamo una delle vignette della coraggiosa rivista satirica e libertaria Charlie Hebdo.

Non sappiamo ancora chi abbia materialmente compiuto l'attentato, ma da comunisti abbiamo dichiarato guerra ad ogni fondamentalismo religioso (a qualsiasi credo si riferisca,sia islamico che ebraico) e continueremo a lottare per liberare l'uomo e la terra da tutte le gerarchie clericali,i gruppi terroristici,i governi teocratici e chiunque manipoli le masse con lo strumento religioso per la propria brama di potere creando morte e distruzione.

Inoltre, al contrario dei tanti coccodrilli che oggi faranno finta di piangere la morte dei giornalisti ma che dentro di loro staranno pensando "se la sono cercata", siamo sempre stati senza se e senza ma a favore della più totale libertà di stampa, libertà che anche nei nostri "progrediti" paesi occidentali e spesso messa in discussione.

Infine siamo convinti che il fondamentalismo islamico, che spesso si trova la strada spianata grazie alle guerre imperialiste ed alle politiche estere di Usa, Israele ed Europa, possa essere definitivamente sconfitto solo con un insurrezione dei popoli arabi sotto una direzione realmente laica, socialista e progressista, sostenuta anche da una mobilitazione generale dei lavoratori e degli immigrati nei paesi occidentali.

Queste sono le nostre idee, e non basterà alcuna minaccia o attentato per farcele cambiare. Se volete impedirci di esprimerle dovete necessariamente ammazzarci tutti.


Con dolore ci stringiamo intorno alle famiglie delle vittime.

Partito Comunista dei Lavoratori
Coordinamento Regionale Marche

03/01/15

Nota dell'area "sindacatoèunaltracosa"opposizione interna CGIL

La guerra di Renzi ai lavoratori

di Sergio Bellavita – La canea che si è scatenata contro i vigili di Roma, colpevoli di essersi assentati in massa dal lavoro l’ultimo giorno del 2014, è parte di una campagna orchestrata contro i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. I primi due decreti attuativi del Jobs Act hanno mostrato a tutti, con buona pace dei tempi lunghi della Cgil, il vero obbiettivo di fondo dei provvedimenti del governo Renzi: costruire il regime della totale ricattabilità del lavoro. Più che la cancellazione delle residue tutele dell’art.18, si volevano liberalizzare i licenziamenti collettivi attraverso l’estensione del regime di quelli individuali.
Oggi la polizia municipale di Roma e gli operatori ecologici di Napoli servono a proseguire la campagna per la costruzione di questo regime di ricattabilità. In un paese che vive di corruzione dall’alto, di tangenti e pizzi sulle inutili grandi opere, che vede gran parte delle sue classi dirigenti autrici e complici di un sistema che depreda le risorse pubbliche a vantaggio della distruzione ambientale e sociale, Renzi scarica tutte le responsabilità su lavoratori a 1300 euro al mese, su settori con gli organici ridotti all’osso, su uomini costretti a turni e straordinari insostenibili. I vigili sono il pretesto della furiosa campagna ideologica di Renzi per continuare la sua guerra ai lavoratori, allo stato sociale, allo stesso ruolo pubblico in economia. Non a caso la cosidetta opera moralizzatrice di Renzi e del redivivo Marino, sindaco di Roma, si abbatte sul pubblico impiego e sulle aziende partecipate come Farmacap che, con un colpo di mano, si tenta di dismettere. I presunti fannulloni servono a costruire un clima di massa contro, anche qui, i presunti privilegi del pubblico impiego. I media rispondono vergognosamente alla chiamata del governo con l’obbiettivo di estendere il regime di ricattabilità e licenziabilità anche ai lavoratori del pubblico impiego. Un tentativo certo maldestro ma che potrebbe trovare spazio nella rabbia di chi, nella gerarchia della precarietà del lavoro, vive una condizione assai peggiore o cerca inutilmente di lavorare. E’ sempre l’iniziativa generale e la connessione delle tante diverse soggettività a mancare clamorosamente. La responsabilità della Cgil è enorme. Non solo Renzi non si è minimamente fermato davanti alle proteste sindacali, non solo lo sciopero generale non ha intaccato la determinazione reazionaria di Renzi, siamo davanti ad una intensificazione della guerra ai lavoratori del governo. Segno che lo stesso Renzi sente di aver vinto un macth pesante sul piano sociale. Non è certa conclusa la partita, per la semplice ragione che mai si potrà dire la parola fine. Quello che tuttavia è certo è che i limiti, i ritardi, la debolezza dell’iniziativa sindacale hanno pesato drammaticamente e che senza una rottura netta con pratiche ormai irrilevanti, senza la ricostruzione di un fronte di lotta di lungo periodo per molti anni la condizione di chi lavora, delle classi popolari è costretta a peggiorare progressivamente. Il nuovo anno è iniziato con una nuova pesante offensiva di un governo costretto dal clamoroso fallimento del suo semestre europeo, dalla recrudescenza della crisi economica e trovare sempre nuove armi di distrazione di massa. La Ue è scossa profondamente dal voto che si profila in Grecia. Spetta a noi accompagnare i tanti voti contro l’austerità che tutti si aspettano dal voto Greco con la ripresa delle lotte sociali.