31/03/11

L'ATTUALITA' DELLA RIVOLUZIONE PERMANENTE


La rivoluzione permanente " trotskysta" affonda le sue radici- al contrario di quanto hanno scritto gli epigoni ignoranti staliniani - nel marxismo classico. Già nell'ultima parte del Manifesto del Partito Comunista Marx e Engels avevano avanzato l'idea che in Germania " il moto borghese sarà l'immediato preludio di una rivoluzione proletaria" Indubbiamente il pronostico sostenuto dei due fondatori del marxismo classico si è dimostrato negli eventi inesatto, ma metodologicamente, al contrario, va considerato valido e giusto. L'analisi di Marx e Engels si sviluppava su due aspetti, da una parte l'incidenza del contesto socio economico internazionale, dall'altro la maturità delle forze interne rispetto al livello raggiunto da altri paesi nel momento della rivoluzione borghese.

In sostanza in Marx si faceva chiara l'idea, poi ripresa da Trotsky e da Lenin, secondo cui una paese arretrato come, ad esempio, la Russia avrebbe potuto raggiungere il potere il proletariato senza passare per una tappa intermedia, ovvero non fermarsi alla rivoluzione borghese.

La cosiddetta "rivoluzione a tappe" vide tra i maggiori sostenitori i menscevichi Plechanov, Martov e Martynov, in seguito, dopo la morte di Lenin, anche Stalin ne fu fervente sostenitore. E’ stato proprio questo rimpasto di vecchio menscevismo della rivoluzione a “fasi storiche” , la teorica che ha inizio del secolo scorso si è opposta con maggior vigore alla Rivoluzione Permanente.

La rivoluzione cinese del 25 e del 27, ad esempio, vide la formulazione e l’ esecuzione esplicita della tattica della rivoluzione a tappe da parte di Stalin ( inserimento del PCC nel Kuomitang nazionalista) - in seguito negli anni 30 Stalin, non contento di tale disastro che portò al massacro di Shangai, ne diede anche una copertura ideologica, come padrone nei fatti dell'Internazionale Comunista. Tale copertura ideologica sfocio con i famigerati “fronti popolari”, tattica, ahimè, che ancora oggi ne subiamo le conseguenze e la sue applicazioni (il centro sinistra ne è una versione aggiornata). Non a caso, a riprova ulteriore di questo scelta dell’apparato staliniano, a capo della linea politica del PCUS stalinizzato in Cina, sempre durante la rivoluzione degli anni 20 in Cina, Stalin mise l'ex menscevico Martynov che non tradì la fiducia di Stalin strangolando la rivoluzione cinese e profetizzano la rivoluzione a tappe..

Tornando, cosa più interessante, alle radici della Rivoluzione Permanente di Trotsky vi è uno scritto ancor più esplicito del già citato Manifesto del Partito Comunista riguardante le basi marxiane della teoria di Trotsky è il testo "L'indirizzo della lega dei Comunisti" scritto dai fondatori del marxismo. " Mentre i piccoli borghesi democratici vogliono portare al più presto possibile la rivoluzione e realizzando tutt'al più le rivendicazioni di cui sopra è nostro interesse e nostro compito rendere permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere dello stato, sino a che l'associazione del proletariato non solo in un paese, ma in tutti i paesi dominanti del mondo si sia sviluppata al punto che venga meno la concorrenza tra i proletariati di questi paesi e sino a che almeno le forze produttive decisive non siano tutte nelle mani del proletariato. IL loro ( classe operaia tedesca) grido di battaglia deve essere la rivoluzione in permanenza!"

Dunque in Trotsky esisteva una sponda una sorta di ancoraggio al marxismo classico nella sua formulazione teorica della Rivoluzione Permanente. Ma sarebbe un errore, un grave errore storico e dialettico, pensare che in Trotsky l’ analisi della Rivoluzione Permanente sia stato semplicemente il frutto di una declinazione meccanicista del marxismo classico. Trotsky da voce alle sue idea in un contesto storico particolare ove il dibattito e gli avvenimenti, in seno al movimento operaio, sono in piena evoluzione, in queste condizioni particolari Trotsky formula e aggiorna la teoria della Rivoluzione Permanente.

IN CHE COSA CONSISTE LA RIVOLUZIONE PERMANENTE

La teoria della Rivoluzione Permanente nasce nel 1905. Trotsky, con l’aiuto di Parvus, inizia a formulare tale teoria. Inizialmente il nome di come viene chiamata la Rivoluzione Permanente è Rivoluzione Ininterrotta, l’articolo di Trotsky che accenna a questa teoria appare sul Nacialo ( rivista del movimenti operaio russo) nel 1905. Ma di Rivoluzione in Permanenza aveva già parlato Lenin qualche tempo prima. Lenin spiegava la sua posizione , all’interno del dibattito politico della socialdemocrazia, e indicava la necessità di “non fermarsi a metà strada” e di passare “subito, nella misura della propria forza”,1 dalla rivoluzione democratico a quella socialista, quindi è in fieri anche il Lenin – come poi ci mostreranno i suoi testi : Lettere da Lontano e le Tesi di Aprile- il rifiuto di quella che era la rivoluzione a tappe.

Nel testo del 1905 Trotsky preme per il superamento tra programma minimo ( conquiste parziali del movimento operaio) e il programma massimo ( socialismo). Trotsky, con estrema chiarezza, pone idealmente la problematica permanentistica della rivoluzione al metodo del programma transitorio :

“ La posizione di’avanguardia della classe operaia nella lotta rivoluzionaria; il legame che si stabilisce fra lei e la compagna rivoluzionaria, il fascino con cui essa sottomette l’esercito; tutto la spinge inevitabilmente al potere. La piena vittoria della rivoluzione comporta la vittoria del proletariato. Questa vittoria ultima determina a sua volta l’ulteriore continuità della rivoluzione. IL proletariato attua i compiti fondamentali della democrazia e la logica della lotta immediata per il rafforzamento del dominio politico pone ad esso in un determinato momento problemi puramente socialisti. Tra programma minimo e programma massimo si stabilisce una continuità rivoluzionaria. Questo non significa un colpo, e neppure un giorno o un mese, ma un’intera epoca rivoluzionaria. Sarebbe cecità valutare in precedenza la durata di questa” 2

Nella teoria della rivoluzione permanente sono presenti un insieme di riflessioni che spaziano a 360’ nel metodo marxista.

Vi troviamo in questa teoria :

1) Per i paesi a sviluppo borghese ritardato e in particolare per i paesi semicoloniali e coloniali, la teoria della rivoluzione permanente significa che la soluzione vera e compiuta dei loro problemi di democrazia e liberazione nazionale non è concepibile se non per l’opera della dittatura del proletariato

2) La questione agraria e il ruolo dei contadini nei processi rivoluzionario

3) Qualunque siano le tappe del processi rivoluzionario nei vari paesi, l’alleanza rivoluzionaria del proletariato con i contadini è concepibile solo sotto la direzione del proletariato.

4) La vecchia formula della “ dittatura democratica del proletariato e dei contadini” è superata. Essa rifletteva, in modo algebrico, la situazione contingente del rapporto dei classe tra proletariato , contadini e forze borghesi. Ciò significa che la dittatura democratica del proletariato e dei contadini è concepibile solo come “ la dittatura del proletariato che trascini dietro di sé le masse contadine”.

5) La conquista del proletariato non termine alla rivoluzione proletaria, al contrario, non fa che inaugurarla.

6) La rivoluzione socialista non può giungere a compimento entro un quadro nazionale.

7) La teoria del socialismo in un paese solo- non solo è stata sconfitta dalla storia- è la sola che si opponga in modo del tutto conseguente alla teoria della rivoluzione permanente, dunque al socialismo internazionale e al marxismo rivoluzionario.

8) La teoria della Rivoluziona Permanente è anche il frutto dell’ineguale sviluppo economico e combinato dell’economia. IL marxismo rivoluzionario in particolar modo quello di inizio secolo scorso, ovvero quello spinto da Kautskij, si era formato sulla convinzione che le rivoluzioni socialiste fossero possibili in primo luogo ed esclusivamente nei paesi a capitalismo avanzato. Nei paesi arretrati, colonie, ecc. si presupponeva che ciò non fosse possibile se prima non sopraggiungesse la rivoluzione “democratica borghese” . La storia come la rivoluzione russa ha dimostrato è stato il contrario. Proprio su questo contrario, il continuo della rivoluzione sino alla presa del potere dal parte della classe operaia che si erige la Rivoluzione Permanente di Trotskij.

Se la borghesia, come ci insegna la storia anche recente, non può lasciarsi assimilare pacificamente dalla democrazia socialista, lo stato socialista non può dunque integrarsi nel sistema capitalista mondiale. Lo sviluppo pacifico di “ un paese solo” non è all’ ordine del giorno della storia, si preannunciano; una lunga serie di sconvolgimenti mondiali, si preannunciano guerre e rivoluzioni. Le tempeste sono inevitabile anche nella vita interna dell’ Urss…3

LA RIVOLUZIONE ARABA VIDIMAZIONE DELLA RIVOLUZIONE PERMANENTE

Dopo una dittatura pluridecennale il dittatore tunisino Ben Alì è fuggito dal paese lasciando le dimissione di capo del governo, simile sorte almeno negli effetti è toccata al dittatore egiziano Mubarak. Le proteste, in Tunisia, iniziate nel centro di Sidi Bouzid si sono allargate in poco tempo in tutto il paese. La protesta anti Ben Alì è stata un evento eccezionale, ha coinvolto vasti strati della popolazione tunisina, tra cui il movimento operaio. IL popolo tunisino, come quello egiziano, sono stufi della disoccupazione, dell’aumento verticale dei prezzi del pane e di prima necessità, stanchi di un regime corrotto, amministrativo, burocratico e poliziesco. I popoli tunisino e egiziano hanno fatto sentire la loro voce, hanno dimostrato il loro coraggio e hanno liberato il proprio paese dai rispettivi dittatori. Ma queste vittorie parziali del popolo tunisino ed egiziano, seppur importanti, non possono soddisfare le masse rivoluzionarie del Magreb. La questione centrale per tutte le rivoluzioni è che il potere post dittatura deve essere assunto dal proletariato. La caduta di un despota non rappresenta necessariamente il conseguimento della vittoria del mondo del lavoro.

Gli eventi del Magreb e non solo Tunisia, Egitto, Algeria, Marocco, Libia, Siria ecc rappresentano un passaggio fondamentale per la diffusione del programma marxista rivoluzionario. Imboccato dalla teoria della Rivoluzione Permanente il programma comunista è l’unico che può rispondere alle esigenze di libertà delle singole popolazioni

L’Effetto domino delle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto ha avuto ripercussioni in Libia e in altri stati, dobbiamo sostenere con tutte le forze i popoli in rivolta, sotto la guida del proletariato, che possono cacciare questi regimi e finalmente instaurare un sistema socialista.

LA RIVOLUZIONE A TAPPE ENNESIMO TRADIMENTO STALINISTA

Dopo decenni di tradimenti gli stalinisti ripetono ancora gli stessi errori che da sempre li hanno caratterizzati. Attratti dal potere come una sorta di calamita sono sempre disposti a pronarsi all’uomo potente di turno. In Tunisia, ad esempio, gli stalinisti tunisini guidati Amhed Ibrahim dopo aver in gran parte sostenuto l’ascesa del potere di Ben Alì del 1987 in contrapposizione al precedente despota Habib Bourguiba, hanno poi preso come passo in “avanti” il discorso di Ben Alì –prima della caduta- che prometteva riforme, infine non saturi di tutto ciò, il trogloditismo stalinista non ha mai fine, hanno gridato a gran voce un governo di unità nazionale, magari con la loro partecipazione…

In Libia, invece, le forze staliniane ( nella sua totalità, compresi i piccoli sostenitori europei) hanno visto e vedono il regime di Gheddafi progressista, come qualche anno fa vedevano e tutt’ora lo vedono come progressista il regime teocratico Iraniano, a motivare tale posizione sarebbero due aspetti. IL primo, tipico dell’analisi staliniane, è l’opposizione presunta che tali regime ( Iran e Libico) hanno fatto all’imperialismo statunitense. ( come se per un comunista vi fossero dei regimi borghesi progressisti…Sic!) . Secondo aspetto sarebbe caratterizzato, nell’analisi sempre “campista” degli stalinisti, dal fatto che la rivoluzione libica sia pagata , nei migliori casi imboccata dagli Usa e da altri imperialismi, quindi controrivoluzionaria. Insomma la solita storia , gli stalinisti pensano che la CIA o altri servizi segreti abbiamo comprato centinaia di migliaia di persone per fare una “rivoluzione” atlantista. Dunque vi sarebbe una sorta di stanza segreta ( negli USA, tanto segreta da far invidia alla serie televisiva X-Files) eteroguidata dagli imperialismi che a seconda dei propri interessi economici indica la strada alle masse “ controrivoluzionarie”, a suon di dollari, per il superamento dei regimi di turno…

Insomma gli stalinisti, questi si in modo meccanicistico e astorico continuano a battere la strada della “rivoluzione a tappe”. La prima di queste tappe dovrebbe secondo la loro logica una “transizione democratica” e solamente dopo in un futuro non meglio precisato si può pensare ( ma non lo fanno) ad una rivoluzione socialista. Non solo questo metodo è profondamente antileninista ( basti guardare il processo rivoluzionario in Russia del 1917 sotto la guida di Lenin e Trotsky), ma anche cieco storicamente. Nessuna rivoluzione è di per se eterna, le masse lottano per un miglioramento delle loro condizioni, ma senza un partito rivoluzionario la rivoluzione non può essere guidata alla presa del potere del proletariato. La borghesia in assenza di un vero Partito Comunista ( magari con l’aiuto dei partiti collaborazionisti e gli stalinisti di turno) riesce a riprendere fiato e in modo “ gattopardesco” a sostituire un regime borghese con un altro… Non fermarsi alle concessioni borghesi, ma continuare sino alla presa del potere. Questa deve essere la parola d’ordine nel Magreb

PER LA GUIDA RIVOLUZIONARIA DI UN VERO PARTITO COMUNISTA

Trotsky, dopo la prima rivoluzione Russa del 1905, scriveva che i soviet nascono solo in una fase rivoluzionaria. Nel 1905 i soviet nascono, in origine, come comitati di sciopero al servizio del proletariato così, seppur con i dovuti termini di paragone, in Tunisia sono nati in alcune zone comitati per la difesa diretti dai manifestanti contro gli attacchi polizieschi del regime.

Per questo- oggi più che mai- la costruzione di un'alternativa di direzione della rivoluzione, Tunisina, Egiziana e in particolar modo libica è e sarà posta sempre più il frutto dalla dinamica degli avvenimenti e delle parole d’ordine avanzate dalla classe operaia, gli avvenimenti, in Libia, hanno subito una forte accelerazione. Sono stati scossi dagli interessi dell’imperialismo francese e britannico in primis che si è affrettato a bombardare la Libia per tutelare i propri interessi economici.

Solo un partito rivoluzionario ( in Libia) e conseguentemente trotskysta può servirsi delle contraddizioni tra imperialismi occidentali e Gheddafi e porre all’ordine del giorno la rivoluzione socialista. Fondamentale per il proletariato libico sarà il rifiuto del “sostegno” dei vari imperialismi contro il regime Gheddafiano; una vera e propria illusione, una finta liberazione. .

Solo un partito rivoluzionario può assolvere alla complessità di questi compiti. Cacciare Gheddafi e l’imperialismo occidentale per una federazione socialista e laica del Magreb.

Eugenio Gemmo
Partito Comunista dei Lavoratori
Direzione Nazionale

Note
1 “ L’atteggiamento della socialdemocrazia verso il movimento contadino” OP. IX
2 “ Nacialo” n’ 10

26/03/11

L’accordo siglato alle Cartiere colpisce i diritti dei lavoratori

COMUNICATO STAMPA:


Il recente “verbale di accordo” siglato il 16 marzo per rinnovare l’integrativo del II livello di contrattazione per il triennio 2011-2013, è caratterizzato da un ideologia decisamente antioperaia.
Il Partito Comunista dei Lavoratori ritiene inaccettabile il tentativo congiunto della direzione aziendale e l’ R.S.U delle ex-Miliani volto a riversare sui lavoratori le contraddizioni sulla “non-gestione” della nostra storica azienda.
La richiesta del management delle Cartiere di voler mettere in discussione diritti acquisiti quali l’assenza per infortunio, la malattia e la legge 104, denota la volontà politica di colpire i diritti costituzionali e contrattuali di tutti i lavoratori.
Nel frattempo, oltre ad impedire una democratica consultazione tra gli operai, si evidenzia una preoccupante riduzione dei margini di guadagno. La responsabilità di tutto questo, per gli artefici del degrado aziendale causato dal sottogoverno nella gestione del personale, sono da attribuire solo ai lavoratori. Ma è solo un vergognoso scaricabarile che non possiamo accettare.

Con preghiera di massima diffusione

Partito Comunista dei Lavoratori
Coordinamento Provinciale Ancona

25/03/11

CONTRO L'INTERVENTO IMPERIALISTA, MA DALLA PARTE DELLA RIVOLUZIONE LIBICA

Né pacifisti, nè stalinisti.
Contro la guerra, da comunisti rivoluzionari

L'intervento imperialista in Libia, nel contesto della rivoluzione araba, fornisce uno spaccato illuminante di posizioni a confronto nella sinistra italiana.
Come PCL lavoriamo naturalmente per il più ampio fronte unico di forze contro l'intervento militare, a favore dello sviluppo di un vero movimento di massa . Ma dentro la costruzione del movimento riteniamo essenziale evitare ogni forma di rimozione politica delle divergenze esistenti. Sapendo che esse non riguardano solo un problema specifico di “politica internazionale” ma, in ultima analisi, la stessa natura dei programmi di fondo che si perseguono.
La “guerra di Libia” mette a confronto, in estrema sintesi, quattro posizioni diverse a sinistra.

QUATTRO POSIZIONI A CONFRONTO: INTERVENTISMO UMANITARIO, PACIFISMO, NEOSTALINISMO, MARXISMO RIVOLUZIONARIO

Una prima posizione si barcamena tra l'interventismo umanitario e il pacifismo. E' il caso di Nichi Vendola e di SEL. Si tratta di una posizione aperturista verso la risoluzione 1973 dell'ONU ( che ha aperto la via all'intervento armato), ma al tempo stesso formalmente “prudente”.. sull'uso delle armi. E' il tentativo di conciliare l'inconcialibile: l'imperialismo e l'attenzione umanitaria. Ma soprattutto la corsa al premierato del centrosinistra e i voti pacifisti. L'aspirante Premier del Centrosinistra deve mostrarsi sufficientemente “statista” da riconoscere l'Onu e le sue disposizioni di guerra, ma anche sufficientemente scaltro da apparire contrario alla guerra. Sufficientemente “responsabile” agli occhi di un PD che vota la guerra ( salvando Berlusconi), ma anche sufficientemente “pacifista” per insidiargli i voti. Siamo per l'appunto al triste replay del bertinottismo (voto alle missioni di guerra ma con la spilletta della “pace”), seppur mascherato oggi dall'assenza in Parlamento.
Una seconda posizione è di carattere “trattativista” pacifista. E' il caso della Federazione della Sinistra ( Diliberto Ferrero Salvi Patta). Si tratta di una posizione sicuramente contraria all'intervento di guerra in Libia, ma nel nome di una soluzione “diplomatica” del “contenzioso interno libico”. In altri termini di una soluzione di “pace” tra Gheddafi e gli insorti, o di una imprecisata “transizione democratica” assistita dalla “diplomazia internazionale”. E' una posizione che nel nome della “non violenza” o pone di fatto sullo stesso piano la violenza degli oppressori e la violenza degli oppressi , la rivoluzione libica e la controrivoluzione del regime; e/o ripropone l'eterna illusione su una possibile “neutralità” dell'Onu e delle istituzioni internazionali dell'imperialismo. Nel migliore dei casi, condanna formalmente la natura oppressiva del regime libico, ma non sostiene l'insurrezione armata per rovesciarlo. E' l'eterna riproposizione di un pacifismo al di sopra della storia e della realtà( tranne quando si ottengono ministeri e si votano le guerre imperialiste). Ma anche sufficientemente presentabile al centrosinistra e ai suoi salotti borghesi per cercare di non essere scaricati dalle alleanze elettorali amministrative e dalla auspicata “Alleanza democratica” col PD e la UDC, partiti di guerra.
Una terza posizione si attesta sul sostegno politico ( a volte critico, a volte no) a Gheddafi e al suo regime. E' il caso della composita area neostalinista italiana. Si tratta di una posizione fortemente contraria all'intervento imperialista- di cui denuncia anche correttamente finalità e ipocrisia- ma nel nome della difesa di un regime “antimperialista” e della sua tradizione, in perfetto allineamento con le posizioni di Chavez e di Castro. E' una posizione che non solo rimuove la realtà del regime confondendola con la sua propaganda, ma anche la realtà della rivoluzione, presentata come insorgenza tribale. Nella sua versione più ricercata e meno “gheddafista” ( Rete dei Comunisti) rappresenta la vicenda libica come una spiacevole guerra civile fra tribù, tra cui occorrerebbe mettere pace grazie a una intermediazione diplomatica di Stati (borghesi) arabi e africani. Nei fatti è la ricopiatura della proposta Chavez, interessato esclusivamente a salvaguardare le buone relazioni economiche e diplomatiche con Gheddafi ( come col regime iraniano). Si tratta della conferma di una posizione generale che sostituisce la storia reale della lotta di classe e delle lotte dei popoli oppressi con la relazione tra campi statuali: ieri la burocrazia dell'URSS, oggi più modestamente il regime bolivariano. La rivoluzione reale naturalmente , può aspettare, a vantaggio della sua (variabile) rappresentazione mitologica.
La quarta posizione è quella del marxismo rivoluzionario: che combina l'opposizione più radicale all'intervento imperialista col sostegno alla rivoluzione libica, nell'ambito della più generale rivoluzione araba. E' la posizione del Partito Comunista dei lavoratori. In quanto rivoluzionari, partiamo sempre dalla distinzione elementare tra oppressi ed oppressori, ad ogni latitudine del mondo. In quanto rivoluzionari sosteniamo ogni movimento degli oppressi contro gli oppressori, quali che siano le sue contraddizioni e i suoi limiti. In quanto rivoluzionari cerchiamo di intervenire in ogni movimento degli oppressi per ricondurre le sue ragioni alla prospettiva della rivoluzione socialista, su scala nazionale e internazionale. Questa è la base generale di definizione del nostro posizionamento nei processi storici reali e nelle loro dinamiche, spesso molto complicate. Questo è il nostro metodo d'approccio alla vicenda libica.

LE DIFFERENZE TRA LA RIVOLUZIONE LIBICA E LA RIVOLUZIONE TUNISINA ED EGIZIANA

La rivoluzione libica è un fatto reale, inseparabile nel suo stesso innesco dal processo più generale della rivoluzione araba, iniziato in Tunisia e in Egitto.
Certo la rivoluzione libica ha avuto ed ha una dinamica diversa da quella tunisina ed egiziana. Ma non perchè “il regime di Gheddafi non è poi tanto male”, “le masse libiche stanno meglio che in Tunisia e in Egitto”, ci sono forme di “democrazia popolare” ecc.ecc., come afferma, con involontaria e tragica ironia, la vulgata neostalinista. Ma per ragioni esattamente opposte.
Il regime di Gheddafi ha una natura ben più totalitaria e dispotica dei regimi di Ben Alì e Mubarak. In Tunisia e in Egitto regimi bonapartisti e corrotti tolleravano forme recintate di “opposizione” politica e una parziale dialettica sindacale, sia pur limitata e controllata. Ciò che ha favorito l'utilizzo di canali organizzati nell'ascesa rivoluzionaria (pensiamo al ruolo del sindacato Ugtt in Tunisia o ,in forma molto minore, dei sindacati indipendenti in Egitto). In Libia il regime ha ciclicamente eliminato manu militari ogni ombra di opposizione interna, ha espunto ogni spazio di dialettica sociale e sindacale, ha costruito una rete capillare di controllo sociale attraverso la polizia diffusa di regime ( i cosiddetti comitati rivoluzionari).
In Tunisia e in Egitto esistevano ed esistono eserciti nazionali potenti, certo più subordinati, nei loro vertici, all'imperialismo ma anche più esposti, nelle loro fila, al contagio popolare della pressione di massa. In Libia l'esercito nazionale ha avuto ed ha un corpo assai limitato, a fronte di una potentissima milizia privata del Raiss, come struttura separata di regime, largamente impermeabile alla società libica, e organicamente dipendente dalla famiglia Gheddafi. Cui si aggiunge una presenza di milizie mercenarie direttamente acquistate dal Colonnello in Centro Africa ( spesso con la significativa intermediazione sionista, come hanno documentato, non senza imbarazzo, il Messaggero e il Mattino).
In Tunisia e in Egitto, esisteva ed esiste una consistente classe operaia industriale autoctona, non a caso protagonista determinante in entrambi i casi del processo rivoluzionario. In Libia una classe operaia industriale libica è estremamente limitata : mentre è molto presente un proletariato d'importazione, proveniente da altri paesi arabi (Tunisia ed Egitto innanzitutto) ma anche dall'Asia, dal Sudan, dal Ciad, dal cuore dell'Africa nera, ridotto ad uno stato semischiavile ( con grande vantaggio per le “democratiche” aziende occidentali), e politicamente depotenziato dalla propria condizione.
E' sufficiente tutto questo per capire le maggiori difficoltà della rivoluzione libica, e le sue indubbie particolarità? Peraltro proprio questo contesto misura tanto il carattere eroico dell'insurrezione di Bengasi e in tante altre città della Cirenaica e della Tripolitania, quanto la sua immediata traduzione in contrapposizione militare e guerra civile ( col passaggio determinante di settori dell'esercito agli insorti). E viceversa: chi si ostina a negare l'esistenza di una rivoluzione popolare contrapponendole la categoria della “guerra civile”, non solo ignora la storia del rapporto tra guerre civili e rivoluzioni ( v. il nostro testo “dalla parte della rivoluzione libica”), ma rimuove la dinamica concreta di una vicenda libica in cui l'unica forma concreta di rivoluzione popolare- nella condizioni imposte dalla natura del regime- era esattamente la guerra civile. Per cui chi respinge inorridito la guerra civile in Libia di fatto respinge ..la rivoluzione popolare contro Gheddafi. Che è esattamente la conclusione degli stalinisti.
Né vale il riferimento alla cosiddetta “guerra tribale”, per negare la rivoluzione. Naturalmente in Libia è ben presente la vecchia rete tribale ed è indubbio che anche elementi tribali siano confluiti nella sollevazione popolare contro Gheddafi ( come del resto storicamente in numerosi movimenti di massa anticoloniali o di ribellione sociale, in particolare in Africa). Ma è totalmente falso, nel merito, ridurre l'insurrezione popolare al gioco tribale. In un certo senso è vero l'opposto. E stato il regime di Gheddafi ad aver largamente preservato la struttura tribale della società libica in funzione della propria autoconservazione, attraverso il rapporto diretto con i capi clan. Ed ancora oggi è Gheddafi ad appellarsi ai capi tribù per lanciare un appello di “pacificazione” contro la rivoluzione (v. la cosiddetta “marcia della riconciliazione”). Ed è invece proprio la rivoluzione popolare ad aver avuto un parziale effetto dissolvente e di scomposizione dei vecchi assetti tribali, coinvolgendo una gioventù ribelle largamente estranea alla tradizione, e unificando trasversalmente settori di massa della più diversa provenienza tribale attorno alla comune rivendicazione democratica del rovesciamento del regime. Peraltro la composizione del Consiglio della rivoluzione a Bengasi non segue affatto un criterio tribale, al punto da annoverare al proprio interno elementi della tribù di Gheddafi ( tribù Qadafi).

LE NECESSITA' PARTICOLARI DELL'INTERVENTO IMPERIALISTA IN LIBIA

Peraltro proprio la natura particolare del contesto libico spiega l'intervento militare delle potenze imperialiste. Non tutto è spiegabile semplicemente con le ricchezze petrolifere della Libia, che pur hanno un peso importante nelle scelte dell'imperialismo. Molto ha a che fare con la natura delle forze in gioco e della stessa guerra civile.
In Tunisia e soprattutto in Egitto, l'imperialismo aveva ed ha interessi enormi, sia di carattere economico, sia di natura strategica e militare. Eppure non ha mai neppure ipotizzato un intervento diretto. Per quale ragione? Sicuramente per l'imponenza di una sollevazione popolare che sconsigliava ogni avventura: tanto più in virtù del suo trascinamento, in varie forme, in tutta la nazione araba. Ma anche per un secondo fattore: il fatto che in entrambi i paesi e soprattutto in Egitto l'imperialismo disponeva e dispone di leve potenti nei rispettivi apparati statali ( in particolare militari) e di indubbi legami con parte delle leaderschip delle rivolte.
Questo fattore è o assente o assai ridotto in Libia. Il cuore dell'apparato militare libico è polizia privata di regime, data la tradizionale marginalità dell'esercito. La guida della rivoluzione ( Consiglio nazionale di transizione) è un coacervo improvvisato e semisconosciuto di elementi contraddittori e disparati ( ex ministri di Gheddafi, generali scissionisti, islamici, giovani blogger), senza legami organici pregressi con gli ambienti occidentali ( e tra loro). L'imperialismo non poteva affidarsi passivamente a questa leaderschip. Solo un intervento militare diretto poteva consentire all'imperialismo un entratura nella partita libica ( e per questa via un più ampio potere di condizionamento sull'intero quadro del Maghreb e della nazione araba in ebollizione, contro la rivoluzione libica ed araba). Il che naturalmente non risparmia all'imperialismo – come vediamo- lo scotto delle proprie contraddizioni interne circa la ripartizione della torta.
In questo quadro la nostra posizione è molto netta: siamo contro l'intervento militare imperialista- e innanzitutto del nostro imperialismo- ma dal versante della rivoluzione libica, non di Gheddafi o di un indistinta “pacificazione”( immaginabile solo se pilotata dall'imperialismo nei suoi propri interessi e contro la rivoluzione)

CONTRO L'IMPERIALISMO, MA DA RIVOLUZIONARI

“Ma come? Come fate a stare contro l'imperialismo e al tempo stesso dalla parte degli insorti che plaudono all'intervento imperialista”? L'obiezione sembra pertinente. E invece ignora la realtà e la complessità della rivoluzione. Peraltro non nuova nella storia: basti pensare, tra i tanti esempi disponibili, al rapporto tra insurrezione partigiana e truppe imperialiste “alleate” nell'Italia del 43-45 ( Dove la politica criminale di subordinazione del movimento partigiano al quadro nazionale e internazionale della “democrazia imperialista” e delle sue forze militari- imposto da Stalin e da Togliatti- certo non poteva motivare alcuna posizione neutrale o “pacifista” nella guerra civile antifascista: ma doveva essere semmai contrastata proprio nel nome dell'autonomia del movimento partigiano e dello sviluppo della rivoluzione socialista in Italia, in aperta contrapposizione agi imperialismi “democratici” ).
E' vero: a fronte di un rapporto di forze militari assolutamente impari, e segnati da una clamorosa impreparazione e disorganizzazione ( altro che complotto preordinato !) , non solo la leaderschip di Bengasi ma la stessa massa degli insorti libici ha salutato l'intervento imperialista come la propria salvezza: quella delle proprie famiglie, e, illusoriamente, della propria “rivoluzione”. Chi può francamente meravigliarsi di questo?
E' semmai importante notare che nei giorni iniziali dell'ascesa insurrezionale, la stessa direzione della rivolta e a maggior ragione il senso comune della sua base di massa, non solo non avevano invocato l'intervento occidentale, ma l'avevano ripetutamente e pubblicamente scongiurato: “La rivoluzione è nostra, non dello straniero”. Qualsiasi intervento occidentale era stato pubblicamente avversato. Ma quando la situazione al fronte si è complicata e poi capovolta, con l'avanzata travolgente della controrivoluzione, la disperazione ha indotto un atteggiamento diverso. Questo fatto chiarifica un punto d'analisi molto conteso. Non la fantomatica “preparazione orchestrata” della rivolta libica ( come vorrebbe la dietrologia stalinista) ma la sua assoluta improvvisazione e impreparazione militare e politica- unite all'assenza di un soccorso rivoluzionario egiziano e tunisino- ha aperto il varco all'inserimento imperialista. E questo intervento mira non al sostegno della rivoluzione- quali che siano le illusioni degli insorti- ma alla sua rimozione: condizione decisiva per recuperare un proprio controllo imperialista sulla Libia in funzione dei propri interessi ( tra loro contrastanti).
Questa situazione non solo non giustifica un disimpegno dal sostegno all'insurrezione libica ( in direzione della “pace” o di Gheddafi) ma suggerisce una politica esattamente opposta: un intervento di più marcato sostegno rivoluzionario alla rivoluzione libica, contrastando ogni tentativo di subordinarla agli interessi imperialisti, e spingendola verso un chiaro programma di democrazia conseguente e di emancipazione sociale.
Di più: solo questa svolta può preservare l'autonomia della rivoluzione libica dalle ingerenze imperialiste e consentire un rilancio della sollevazione popolare.

DARE UN PROGRAMMA RIVOLUZIONARIO ALLA RIVOLUZIONE LIBICA

In primo luogo va posta l'esigenza di un sostegno militare agli insorti da parte della rivoluzione tunisina ed egiziana.
L'assenza di questo soccorso- riflesso dei limiti attuali delle rivoluzioni arabe e della natura delle loro direzioni- ha pesato enormemente sulla dinamica degli avvenimenti libici: favorendo sia l'intervento imperialista, sia l'appoggio a tale intervento da parte di ampi settori della rivoluzione. E' urgente una svolta, certo difficile, ma necessaria. Milioni di lavoratori e di giovani egiziani e tunisini guardano con favore la rivoluzione libica, vedendola ,giustamente, come un prolungamento della propria rivoluzione. Settori di soldati ed ufficiali democratici dell'esercito, sia in Tunisia che in Egitto, simpatizzano per gli insorti libici. L'esperienza degli aiuti umanitari lungo la frontiera tunisina, o episodi ripetuti di rifornimento informale di armi lungo la frontiera egiziana ( ormai aperta), sono al riguardo indicativi. Questa disponibilità va raccolta e organizzata a livello più alto. I rivoluzionari tunisini ed egiziani, le sinistre coerentemente democratiche in entrambi i paesi, possono rivendicare la formazione di “brigate internazionali arabe” a sostegno degli insorti libici, il loro addestramento, rifornimento, inquadramento militare, col coinvolgimento indispensabile di quadri militari dei rispettivi eserciti. E' una rivendicazione che sarebbe duramente osteggiata dai governi nazionali borghesi di Tunisia ed Egitto, e ancor più dall'imperialismo. Ma troverebbe ampio ascolto in migliaia di giovani, rafforzerebbe la coscienza internazionale della rivoluzione araba, incoraggerebbe nella stessa Libia quei settori della rivoluzione che diffidano dell'intervento imperialista ma non vedono una prospettiva alternativa.
Ma un secondo aspetto è decisivo: una svolta coerentemente democratica e sociale nel programma della rivoluzione libica.
Lenin e Trotsky hanno sottolineato in molte occasioni non solo che la rivoluzione può trascrescere in guerra civile, ma che la guerra civile può vincere solo coi metodi e i programmi della rivoluzione. Così fu, a positivo, in URSS, negli anni di guerra civile successivi alla rivoluzione d'Ottobre, quando la bandiera dell'esproprio dei latifondisti e della distribuzione della terra ai contadini fu decisiva per indebolire le retrovie sociali della controrivoluzione e preparare la vittoria dell'esercito rosso. Fu così, a negativo, nella guerra civile spagnola del 36-39, dove la politica controrivoluzionaria dello stalinismo, che bloccò la rivoluzione sociale spagnola reprimendo ferocemente i rivoluzionari, fu il principale fattore della vittoria del generale Franco. In ogni caso l'intera storia delle guerre civili insegna che il peso delle rivendicazioni e delle bandiere sociali costituisce un fattore di prim'ordine sullo stesso terreno dei rapporti di forza militari. Perchè in Libia dovrebbe essere diversamente?
L'insurrezione di Bengasi non ha futuro se non si estende alla Tripolitania, riprendendo la sua marcia in avanti. Ma difficilmente potrà riprendere in Tripolitania se non coniuga la forza delle armi con un messaggio rivoluzionario comprensibile e mobilitante agli occhi del popolo libico, dei suoi settori incerti ed oscillanti, o addirittura di quelli ancora influenzati e confusi dalla propaganda del regime.
Ciò vale intanto sullo stesso terreno democratico. Ad esempio,la chiara rivendicazione di una Assemblea costituente libera e sovrana, con suffragio universale dai 18 anni; come la rivendicazione di piena eguaglianza e libertà per le donne libiche ,a partire dal loro diritto al lavoro, ( contro il segregazionismo reazionario del Libro Verde) potrebbero esercitare una forte attrazione su più vasti settori di massa della gioventù, e contribuire a rompere e disgregare le obbedienze tribali di clan, a tutto vantaggio della rivoluzione.
Ma ciò vale ancor più sul terreno sociale. Alcuni esempi.
Il regime familistico di Gheddafi ha investito le ricchezze del petrolio libico in enormi possedimenti finanziari in occidente, che l'imperialismo vuole congelare nei suoi propri interessi. La rivendicazione del ritiro dei fondi sovrani libici all'estero per la loro distribuzione al popolo libico ( sotto forma di indennità di disoccupazione, di servizi sociali , di migliori stipendi..)sarebbe non solo un atto elementare di giustizia, ma una bandiera popolare da agitare contro il regime ( e contro l'imperialismo).
Il regime di Gheddafi ha ceduto all'imperialismo lo sfruttamento delle risorse libiche con contratti spesso favorevoli all'occidente e a danno degli interessi del popolo libico ( lo stesso trattato di amicizia con l'imperialismo italiano è al riguardo esemplare). La rivendicazione del pieno recupero al popolo libico delle sue risorse e la ridefinizione sotto controllo popolare degli eventuali rapporti con compagnie straniere, rappresenterebbe uno straordinario fattore di consenso alla rivoluzione e di disarmo della demagogia “antimperialistica” del regime.
Il regime di Gheddafi ha svenduto a centinaia di aziende straniere una manodopera semischiavile importata dall'Africa e dall'Asia: sono settori proletari oggi abbandonati dai loro padroni a seguito della chiusura di molte aziende e spinti alla fuga disperata in Tunisia in assenza di ogni altra prospettiva. Una rivendicazione di esproprio delle aziende straniere, di riorganizzazione della loro produzione sotto controllo popolare, di conseguente garanzia del posto di lavoro per i proletari oggi espulsi o minacciati, potrebbe attrarre dalla parte della rivoluzione un settore sociale prezioso, e oltretutto concentrato soprattutto in Tripolitania.
Il regime di Gheddafi ha mantenuto settori di latifondo agrario nelle mani di vecchi clan tribali o di proprietà straniere. La rivendicazione del loro esproprio e di una radicale redistribuzione della terra avrebbe un effetto importante di richiamo su settori di massa contadini, spesso ancora legati al regime per via della mediazione tribale.
Si potrebbe continuare. Ma il cuore del problema è uno solo: una radicalizzazione sociale dell'insurrezione militare potrebbe incidere straordinariamente sui rapporti di forza complessivi e dunque sull'esito della guerra civile. La lotta per una prospettiva di governo dei lavoratori e delle masse povere delle città e delle campagne in Libia non è solo il coronamento naturale di un programma democratico e sociale conseguente che solamente un governo popolare può realizzare; ma è anche una bandiera incorporata allo stesso sviluppo della rivoluzione libica.

PER UNA DIREZIONE ALTERNATIVA DELLA RIVOLUZIONE LIBICA.
PER LA COSTRUZIONE DEL PARTITO RIVOLUZIONARIO

Il risvolto naturale di questa impostazione è una linea di assoluta indipendenza della rivoluzione libica dall'imperialismo e dalle sue interessate ingerenze.
L'operazione delle potenze imperialiste- in feroce sgomitamento tra loro- è subordinare progressivamente la rivoluzione libica ai propri interessi. A partire da un disegno di progressiva assimilazione e integrazione della leaderschip della rivolta. L'intervento militare è cinicamente utilizzato come fattore di condizionamento politico. La rete crescente di contatti, incontri, relazioni, tra le (diverse) diplomazie imperialiste e singole personalità del Consiglio di Bengasi- con naturale precedenza ai vecchi transfughi dall'apparato di regime e agli alti quadri militari passati con la rivoluzione- ha una finalità politica scoperta: non solo uno scopo di conoscenza e verifica, ma uno scopo di coinvolgimento del gruppo di comando dell'insurrezione nella soluzione politica filoimperialista della crisi libica. Sia che essa passi per una mediazione col vecchio regime ( come vorrebbe ad oggi l'Italia) sia che essa passi per la ricostruzione dell'apparato statale e la ridefinizione delle sue relazioni economiche e politiche internazionali ( come vorrebbe la Francia). In ogni caso è decisivo amputare la rivoluzione di ogni autonomia politica, e tanto più di ogni velleità antimperialista.
Una parte importante della leaderschip di Bengasi è più che sensibile a questo richiamo. Ed è naturale. Una sollevazione insurrezionale non si sceglie la propria direzione. Ex ministri di Gheddafi e vecchi comandanti del suo esercito non hanno mutato il proprio profilo per il solo fatto di aver cambiato la collocazione di campo. Il tentativo di mostrarsi a questa o quell'altra potenza imperialista come possibile carta di ricambio su cui investire attenzioni e favori, è già operante: in particolare in direzione della Francia. E quanto più si prolunga e struttura l'intervento militare imperialista in Libia tanto più questa operazione può approfondirsi e consolidarsi. A tutto danno della rivoluzione libica, e ,di riflesso, della rivoluzione araba.
Per questo, la costruzione di un'alternativa di direzione della rivoluzione libica è e sarà posta sempre più dalla dinamica degli avvenimenti.
E può essere selezionata solamente da una politica coerentemente rivoluzionaria. Che sappia utilizzare, nel suo proprio interesse, le contraddizioni tra imperialisti e Gheddafi; ma che rifiuti e contrasti ogni subordinazione della rivoluzione agli imperialisti; combatta ogni illusione verso l'imperialismo all'interno delle masse; si opponga alle tendenze filoimperialiste interne all'attuale direzione; coniughi l'impegno militare in prima linea con l'avanzamento di un programma di mobilitazione rivoluzionaria e di autorganizzazione democratica delle masse; inquadri lo sviluppo della rivoluzione libica dentro il processo più generale della rivoluzione araba. Solo un partito rivoluzionario può assolvere alla complessità di questi compiti.

LA RIVOLUZIONE ARABA COME SCUOLA DI FORMAZIONE

L'esigenza di costruire un partito rivoluzionario, già sollevata dalla rivoluzione tunisina ed egiziana, si conferma dunque nel modo più clamoroso nel contesto della rivoluzione libica. Più in generale, l'intero corso dell'ascesa rivoluzionaria nella nazione araba, l'estendersi del suo contagio in Yemen, le sue prime manifestazioni in Siria, pongono ovunque la questione della costruzione di partiti rivoluzionari e dell'internazionale rivoluzionaria, non come tema accademico ma come necessità politica obiettiva. Lo scarto enorme tra la dinamica accelerata dei processi rivoluzionari nel mondo arabo e il ritardo storico nella costruzione di partiti marxisti rivoluzionari in quelle terre, dopo i disastri compiuti dallo stalinismo, deve motivare un impegno straordinario di lavoro in quella direzione. Di certo la rivoluzione araba, nelle sue varie espressioni e articolazioni, si configura sempre più come un terreno formidabile di formazione politica per i giovani rivoluzionari di tutto il mondo, e per la battaglia politica e programmatica del marxismo rivoluzionario. Anche nei paesi imperialisti, anche in Italia. Di certo il Partito Comunista dei Lavoratori, come partito militante, incorporerà l'esperienza della rivoluzione araba dentro il processo della propria costruzione.

MARCO FERRANDO
Partito Comunista dei Lavoratori
Portavoce Nazionale

24/03/11

La Best chiude ad Albacina

Articolo dal quotidiano Corriere Adriatico del 24/03/2011

La Best chiude ad Albacina
I 90 operai dello stabilimento trasferiti a Cerreto. Oggi le assemblee

Cerreto d’Esi Gianluca Possanzini della Cgil ha parlato di un accordo importante perchè scongiura i licenziamenti e prevede un piano di investimenti per oltre un milione di euro, ma ciò non basta a frenare le preoccupazioni di Youri Venturelli del Pcl che teme il rischio di una delocalizzazione in Polonia dell’attività produttiva. Fa discutere l’accordo siglato martedì scorso tra sindacati e rappresentanti della Best, l’azienda che produce cappe aspiranti, e che oggi verrà sottoposto all’attenzione dei lavoratori nel corso delle assemblee previste negli stabilimenti di Cerreto e Albacina. Il piano di riorganizzazione prevede la chiusura dell’impianto di Albacina e il trasferimento dei 90 operai nel vicino stabilimento di Cerreto.

Novantacinque esuberi su un totale di 360 addetti, con il ricorso alla mobilità volontaria. La Best e i sindacati di categoria Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil hanno siglato martedì scorso un accordo per il rilancio dell’azienda di cappe aspiranti, alle prese con una profonda riorganizzazione interna. La società conferma che Cerreto resta centrale nell’amministrazione, nella ricerca e sviluppo e nel marketing, oltre che nella produzione di fascia medio alta della gamma. La mobilità volontaria sarà sostenuta da un incentivo di 19 mila euro lordi per chi lascerà il posto entro luglio, e 15 mila nei mesi successivi. Per un anno è attivata la cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione, mentre l’azienda si è impegnata a investire in sviluppo e processi produttivi circa un milione e 200 mila euro. Verranno trasferiti a Cerreto d’Esi i 90 dipendenti attualmente occupati nel sito di Albacina.

La Best ora fa capo ad una multinazionale e a sentire il Partito comunista dei lavoratori “la paura che possa delocalizzare in Polonia si fa sempre più forte tra i lavoratori, anche se non viene denunciata apertamente da nessun sindacato. Per ora si dà credito all’azienda quando annuncia un programma di investimenti di un milione di euro, ma dei quattrocento dipendenti, novanta risultano già in esubero e verranno interessati dalla cassa integrazione a rotazione o dalla mobilità”. Una presa di posizione che equivale a un no sull’intesa raggiunta che pure scongiura i licenziamenti coatti. “Per la dirigenza e i sindacati tutto sembra sistemato, ma dal punto di vista degli operai e delle piccole aziende dell’indotto c’è da stridere i denti, visti anche i precedenti della Ardo - denuncia Youri Venturelli, operaio del Pcl - non sono i lavoratori che devono pagare la crisi. Dobbiamo rilanciare una moratoria per il blocco dei licenziamenti”.
Luca Animobono

IL PCL PARTECIPA ALLA MANIFESTAZIONE DI SABATO 26/3/11 A ROMA

Quale forza politica copromotrice- al pari di altre- dell'iniziativa referendaria su nucleare ed acqua, il Partito Comunista dei Lavoratori sarà presente alla manifestazione nazionale di sabato 26 a Roma. In quella sede rilanceremo con forza l'esigenza di una specifica mobilitazione contro la guerra, “perchè sia il popolo libico a rovesciare Gheddafi, non i bombardieri coloniali dei suoi vecchi amici”. Più in generale, il voto di tutto il parlamento a favore della missione di guerra, nel momento stesso della massima contrarietà alla guerra da parte della stessa opinione pubblica, spiega una volta di più che solo un opposizione operaia e popolare di massa, continuativa e radicale, può cacciare il governo Berlusconi e aprire una pagina nuova. Non certo un'”opposizione” parlamentare ipocrita e connivente. “Fare come in Tunisia e in Egitto” resta più che mai la nostra parola d'ordine.

Partito Comunista dei Lavoratori

23/03/11

Ed ora toccherà alla "Best"?

COMUNICATO STAMPA:



Mentre tutti si preoccupano della caduta del colosso Merloni e del futuro dell’Ardo, si diffondono timori anche sulla multinazionale americana “Best”, che già in passato ha chiuso lo stabilimento di Fabriano per continuare a produrre nei due stabilimenti di Cerreto D’Esi ed Albacina.

La paura che possa delocalizzare in Polonia si fa sempre più forte tra i lavoratori, anche se non viene denunciata apertamente da nessun sindacato. Per ora si dà credito all’azienda quando annuncia un programma di investimenti di un milione di euro, ma dei quattrocento dipendenti, novanta risultano già in esubero e verranno interessati dalla cassa integrazione a rotazione o dalla mobilità.

“Per la dirigenza ed i sindacati tutto sembra sistemato, ma dal punto di vista degli operai e delle piccole aziende dell’indotto c’è da stridere i denti, visti anche i precedenti dell’Ardo” denuncia Youri Venturelli, operaio fabrianese del Partito Comunista dei Lavoratori: “Non sono i lavoratori che devono pagare la crisi. Sono i Capitalisti locali che hanno scelto il monosettore, la sovrapproduzione, la delocalizzazione, il deprezzamento. Però ora pretendono siano gli operai a lavorare di più e con meno diritti in nome degli interessi delle multinazionali” ed aggiunge: “Dobbiamo rilanciare una moratoria per il blocco dei licenziamenti e la ripartizione del lavoro esistente attraverso la progressiva riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Rispolverare il vecchio motto:lavorare meno,lavorare tutti!”.

Con preghiera di massima diffusione


Partito Comunista dei Lavoratori
Coordinamento Provinciale Ancona

La nuova campagna in Libia. Le vere Ragioni della Guerra.


LE VERE RAGIONI DELL'ITALIA IN GUERRA.
IL PD SALVA BERLUSCONI NEL NOME DEL SOSTEGNO ALLA GUERRA.
LE SINISTRE ROMPANO CON TUTTI I PARTITI DI GUERRA, E SI MOBILINO UNITE CONTRO DI ESSA.
NON UN SOLDO PER LA GUERRA LIBICA. (19 Marzo 2011)
LE VERE RAGIONI DELL'ITALIA IN GUERRA.

IL PD SALVA BERLUSCONI NEL NOME DEL SOSTEGNO ALLA GUERRA.
LE SINISTRE ROMPANO CON TUTTI I PARTITI DI GUERRA, E SI MOBILINO UNITE CONTRO DI ESSA.

NON UN SOLDO PER LA GUERRA LIBICA.


Il Presidente Napolitano ha fatto sfoggio della sua migliore ipocrisia presentando l'ingresso dell'Italia in guerra come sostegno al “Risorgimento arabo”.

Il risorgimento arabo in Tunisia, Egitto, Libia si è levato esattamente CONTRO i regimi dispotici che tutti i governi italiani hanno sostenuto, economicamente e politicamente, facendo con essi i migliori affari. USA e UE continuano a sostenere contro il risorgimento arabo la dittatura saudita, la monarchia del Bahrein, la brutale repressione del regime Yemenita, a esclusiva difesa delle proprie posizioni militari e strategiche nella regione. Nella stessa Libia il “democratico” occidente si è ben guardato dal rifornire di armi il “risorgimento libico”, di cui non si fida, privilegiando invece il proprio diretto ingresso in guerra coi propri bombardieri.

Il fine dell'imperialismo è molto chiaro, anche nei suoi tentennamenti e contraddizioni. Le vecchie potenze coloniali di Francia ed Inghilterra cercano di recuperare a suon di bombe un proprio spazio economico e politico nel Maghreb, in diretta competizione col capitalismo italiano ( a partire dalla Libia). L'imperialismo italiano, sino a ieri complice diretto del regime di Gheddafi e dei suoi crimini, si è prontamente allineato, dopo vari zig zag, alla missione di guerra al solo scopo di prenotarsi un posto al sole nella ripartizione delle zone di influenza nel Maghreb, e di difendere dalle insidie degli “alleati” concorrenti le sue attuali posizioni ( a partire dai pozzi petroliferi in Libia). La posta in gioco non è solamente il controllo politico sulla Libia postGheddafi ( dove vi sarà uno sgomitamento tra “alleati” nella ridefinizione delle zone petrolifere), ma la spartizione dei nuovi equilibri politici nell'intera regione araba, scossa dalle rivoluzioni popolari. Il fine comune dell'imperialismo, in ogni caso, è acquisire direttamente sul campo leve di intervento e condizionamento politico sui rivolgimenti in corso, bloccare la loro ulteriore espansione, far argine ad ogni loro possibile sviluppo in direzione antimperialista ed anticapitalista. I bombardieri sono solo i veicoli di queste operazioni imperialiste.

Parallelamente, la guerra diventa, ancora una volta, una illuminante cartina di tornasole della politica italiana. Il PD e la UDC non solo hanno rivendicato e votato in prima fila la spedizione di guerra, rimproverando a Berlusconi tentennamenti e ritardi; ma hanno salvato con questo il governo Berlusconi dalle contraddizioni della sua maggioranza, garantendo in un colpo solo la partecipazione italiana alla guerra e il governo più reazionario del dopoguerra: e dunque la continuità della sua politica bonapartista, delle sue minacce ai diritti costituzionali, della sua offensiva antioperaia e antipopolare. “E' stato un atto di responsabilità” gridano inorgogliti, con sorriso tricolore, i capi del PD. E' vero. Un atto di responsabilità verso gli interessi dell'Eni, degli industriali e banchieri italiani ( tanto esposti nel Maghreb), delle gerarchie militari, delle istituzioni dell'imperialismo internazionale ( dall'Onu alla Nato). Un atto che conferma una volta di più, se ve ne era bisogno, l'organica appartenenza del PD al campo della borghesia italiana e dei suoi interessi imperialisti.

Ora tutte le sinistre sono chiamate dai fatti a conclusioni coerenti. Non si può essere contro la guerra e al tempo stesso continuare ad allearsi coi partiti di guerra. Non si può essere contro la guerra e continuare a rivendicare l'Alleanza “democratica” con partiti di guerra (con tanto di sostegno esterno a un suo eventuale governo). Occorre scegliere. Pena la conferma di un intollerabile doppio binario tra le parole e i fatti.

Quanto a noi, continueremo con coerenza sulla nostra rotta. Assumeremo la lotta per il ritiro dell'Italia dalla guerra all'interno della nostra più vasta campagna nazionale per la cacciata del governo Berlusconi ( “Fare come in Tunisia e in Egitto”): denunciando ovunque il salvataggio del governo da parte del PD nel nome della guerra, e dunque sbugiardando la falsità della demagogia antiberlusconiana delle opposizioni parlamentari liberali. Al tempo stesso, e proprio per questo, svilupperemo con più forza la necessità di una aperta rottura col PD, ad ogni livello, da parte di tutte le sinistre politiche , sindacali, di movimento, quale condizione necessaria per liberare un'opposizione radicale e di massa a Berlusconi e al suo governo, capace di vincere. Infine combineremo tutto questo col pieno sostegno alla rivoluzione araba e alla sua propagazione, contro ogni ingerenza dell'imperialismo, a partire dall'imperialismo italiano: ad un secolo esatto dalla spedizione coloniale di Giolitti in Libia, diremo come allora “Non un soldo per la guerra libica”,”No alla guerra tricolore”.

MARCO FERRANDO
Partito Comunista dei Lavoratori
Portavoce Nazionale

21/03/11

Odio l’oppressione!


Con l’evoluzione della crisi tutti si lanciano nelle più sfrenate politiche iper-liberiste ed imperialiste.

Quando la storia la si osserva dal basso, cioè dal punto di vista del proletariato (precari, interinali, lavoratori, studenti etc.) si vede in prospettiva la cruda realtà di queste politiche, che sfociano, con l’aiuto narcotizzante dei media, in una guerra dichiaratamente antioperaia atta a sconfiggere ogni resistenza e, con una regressione che porterà ad un ulteriore sfacelo del già precario  “stato sociale”, ad una ulteriore riduzione dei diritti di tutti, privazioni e sacrifici atti ad un ulteriore ascesa della già privilegiata classe capitalistica...da una parte i ricchi sempre più ricchi e dall'altra i poveri sempre più poveri.
Quando si dichiara di voler formare gli “Stati Uniti d’Europa”, si intende in realtà sottomettere l'intero mondo del lavoro europeo alle nuove regole del capitalismo, che piaccia o non piaccia, sono quelle portate avanti da “Marchionne”. Al contrario, noi vogliamo gli “Stati Socialisti d’Europa” e non un'Europa imperialista. Vogliamo staccarci non tanto da questo capitalismo, quanto dalla “SOPRAVVIVENZA” di questo capitalismo, che rappresenta soltanto una finta madre adottiva neo-liberista, per costruire dal basso l’asse decisivo di una politica comunista. Un programma vero e rivoluzionario che indichi la strada senza tergiversare per dare in mano alla maggioranza della popolazione le leve del comando formando un governo che sia diretto dagli stessi lavoratori. La grande famiglia italiana delle persone per bene sono qui in basso, in questo mondo, che producono e costituiscono, di fatto, l’economia reale. Dobbiamo lottare per riappropriarci e restituire alla stragrande maggioranza della società ciò che ora è trattenuto nelle mani private, perché queste, si procurino il massimo del profitto a discapito dell’interesse pubblico.
Noi lottiamo, con e nel mondo del lavoro, che ancora non riesce a prendere coscienza di se stesso e continua a fidarsi di politici al collasso e di un sistema invivibile e inaccettabile per tutti: dignità, onestà e coraggio sono miraggi in un mondo dove padri e figli, vecchie e nuove generazioni, possano lottare insieme per il loro futuro intraprendendo, nella pratica e nella morale, una rivolta contro un sistema che produce soltanto miseria, arretramenti e privazioni.

Mille esempi si possono fare. Abbiamo un debito pubblico che presto arriverà a 2000 miliardi di euro, ogni anno questo debito produce circa 70 miliardi di interessi i quali dovranno essere restituiti alle banche. Questo vuol dire che ogni anno lo Stato italiano dovrà fare almeno una finanziaria da 45 – 50 miliardi di euro, domanda: chi pagherà e a chi andranno questi soldi?
Questa repubblica è l’involucro necessario del più bestiale sfruttamento di classe. Un sistema che ha esaurito ogni funzione storica progressiva e che trascina nel proprio fallimento l'intera popolazione condannando il mondo ad una regressione storica. A questo punto, nulla è più democratico che rovesciare un governo basato sulla menzogna e sulla corruzione.

Noi non temiamo né le battaglie né le sconfitte. Le nostre sconfitte sono solo le tappe della nostra vittoria. Soltanto i lavoratori e le nuove generazioni potranno strappare il potere di questi nuovi “monarchi” che tutto fanno meno che preoccuparsi delle necessità del proprio popolo. Per questo la rivoluzione socialista internazionale è l’unico orizzonte realistico di progresso.

Il Partito Comunista dei Lavoratori è orgoglioso di appartenere a quella corrente rivoluzionaria internazionale che, non solo non si è mai arresa e non si arrende alle regole del mondo del capitale, ma le vuole rovesciare. Perché l’umanità riconquisti il proprio futuro ed il diritto all'emancipazione ed all'autodeterminazione.

Concludo con un appello: non aspettiamo che scenda Dio in terra o qualche superuomo per cambiare le cose al posto ostro, ma noi tutti dobbiamo scegliere la nostra strada e seguirla coscientemente, liberi dalle illusioni. E la peggiore di tutte le illusioni del proletariato, nel corso della sua storia, è stata finora la speranza incondizionata negli altri e sopratutto in chi dice di rappresentare le sue istanza.

Youri Venturelli
Partito Comunista dei Lavoratori
Sezione di Ancona - Nucleo Montano.

20/03/11

La risoluta contrarietà del P.C.L alla chiusura dello scalo merci alla stazione di Fabriano

A tutti gli organi di stampa e informazione
della Regione Marche

 
COMUNICATO STAMPA:
La risoluta contrarietà del P.C.L alla chiusura dello scalo merci alla stazione di Fabriano

Le ultime notizie di cronaca politica di Fabriano hanno dell’incredibile e confermano la volontà dei governi nazionali e locali e delle sedicenti opposizioni di centrosinistra di spingere al declino più inesorabile tutto il territorio fabrianese.

La probabile “dismissione” dello scalo merci alla stazione ferroviaria di Fabriano rappresenterebbe l’ultimo attacco al cuore dell’economia cittadina.

Il primo risultato di tale sciagurata decisione non potrà che essere quello relativo al grave aumento del traffico e dell’inquinamento come conseguenza della scelta del trasporto “su gomma”.

La seconda, non meno grave, riguarda gli effetti economici che investirebbero il distretto industriale fabrianese, in cui, le piccole industrie locali non legate al “mono - settore” che ancora reggono, vedrebbero aumentati i propri costi nei trasporti, rischiando anche loro uno stato di drammatica crisi che farebbero inevitabilmente pagare ai lavoratori con nuovi licenziamenti.

Il Partito Comunista dei Lavoratori, da sempre a favore della tutela dell’ambiente e del lavoro, chiede che si torni ad investire in queste utili infrastrutture, tutelando gli interessi dei cittadini e non quelli dei vertici ferroviari.


Con preghiera di massima diffusione


Partito Comunista dei Lavoratori
Coordinamento Provinciale Ancona












16/03/11

150° anniversario dell'unità d'Italia: IL NOSTRO RISORGIMENTO!


L'unità d'Italia del 1861 fu la subordinazione del Risorgimento italiano agli interessi di Casa Savoia e del blocco industriale ed agrario: in funzione dello sviluppo del capitalismo nazionale entro un mercato unificato, e della sua colonizzazione manu militari del mezzogiorno. E' dunque naturale che le stesse classi dominanti che oggi accentuano il proprio sfruttamento sulla classe operaia e le masse del Sud, celebrino la propria vittoria di 150 anni fa, avvolgendola nel tricolore e negli inni patrii. Come è naturale da parte loro il coinvolgimento solenne nell'evento della Chiesa papalina: che prima sparò per trentanni sui patrioti del Risorgimento, poi scomunico' il Regno d'Italia, ma infine si riconciliò con le sue classi dirigenti nel nome dei comuni interessi finanziari, agrari, immobiliari.

Per la stessa ragione i comunisti, e persino i coerenti democratici, non hanno nulla da celebrare il 17 Marzo. Il Risorgimento che noi rivendichiamo è quello che perse: quello dell'insurrezione popolare delle 5 giornate di Milano del 1848 poi disarmata dall'esercito sabaudo; quello della Rivoluzione repubblicana a Roma del 1849, poi affogata nel sangue dalle truppe francesi chiamate da Papa Pio IX; ma soprattutto quello che cercò, di connettere la battaglia risorgimentale ad una prospettiva di liberazione sociale degli sfruttati e degli oppressi, contro la borghesia liberale e lo stesso campo democratico mazziniano.

Due nomi risaltano tra i tanti militanti e dirigenti del risorgimento popolare che volevano quello sbocco alla liberazione d’ Italia: Filippo Buonarroti e Carlo Pisacane. Il primo, compagno in Francia di Gracco Babeuf nell’organizzare il primo tentativo di rivoluzione comunista della storia (“La congiura degli Uguali” del 1796), fu il principale organizzatore e dirigente fino alla sua morte nel 1837 delle società segrete “giacobine rivoluzionarie” in tutta Europa. In Italia ciò si espresse in quella che fu, fino allo sviluppo della democratico piccolo borghese Giovane Italia Di Mazzini, la più importante società segreta “carbonara”: i “Sublimi Maestri Perfetti”, il cui terzo e massimo grado implicava il giuramento dell’impegno alla realizzazione dell’uguaglianza sociale con l’abolizione della proprietà privata. Il secondo, Carlo Pisacane, l’eroe dello sfortunato tentativo di Sapri del 1857, che lottò per la costruzione di un partito “socialista rivoluzionario” in Italia, dichiarando di non preferire i Savoia agli Asburgo e polemizzando contro il repubblicanesimo democratico di Mazzini e la sua parola d’ordine “Dio e popolo”, in nome della lotta tra le classi e della rivoluzione sociale.

I tempi storici erano allora immaturi per la vittoria di quei generosi tentativi. Ma essi prefigurarono nelle pieghe del Risorgimento il futuro del movimento operaio rivoluzionario italiano: quello di Antonio Gramsci e del Partito Comunista D'Italia del 1921.

Per questo, solo un governo dei lavoratori che liberi l'Italia dalle attuali classi dominanti potrà recuperare il filo storico del comunismo risorgimentale e dei suoi eroici pionieri. Portando al potere il risorgimento sconfitto. Realizzando sino in fondo le sue migliori aspirazioni sociali , democratiche, anticlericali. Riscattando nel concreto la memoria di chi già allora diede la propria vita non per una dittatura degli industriali e degli agrari, ma per una rivoluzione sociale, per una “Dittatura rivoluzionaria per instaurare la perfetta Uguaglianza” (Buonarroti); per una “terribile rivoluzione, la quale cambiando l’ordine sociale metterà a profitto di tutti ciò che ora riesce a profitto di alcuni” (Pisacane) .

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI
Comitato Esecutivo

Cartiere Miliani: le pari opportunità spesso disattese

A tutti gli organi di stampa e informazione
della Regione Marche

COMUNICATO STAMPA:
Si è da poco celebrata la festa della Donna, e questo ci impone una riflessione importante.

La devastante crisi che investe il distretto industriale fabrianese evidenzia poche eccezioni: si sono salvate solo le aziende che hanno sviluppato una produzione diversificata dal modello mono-settoriale imposto dai poteri forti locali.

È il caso delle Cartiere Miliani che, malgrado un pesante ridimensionamento occupazionale conseguente alla sua selvaggia privatizzazione, ha ottenuto, grazie al sacrificio degli operai, risultati positivi.

Una delle note dolenti riguarda però il rispetto della legge sulle "pari opportunità" tra uomo e donna. Infatti le assunzioni precarie di un esiguo numero di donne, fanno registrare una grave disparità rispetto all'assunzione di uomini.

Le organizzazioni sindacali delle Miliani dovrebbero rivendicare da subito una più corretta applicazione della legge sulle "pari opportunità".
Con preghiera di massima diffusione


Partito Comunista dei Lavoratori
Coordinamento provinciale Ancona

15/03/11

IL FALLIMENTO E LA TRAGEDIA DEL NUCLEARE


IL POPOLO GIAPPONESE DOPO AVERE PROVATO LA VIOLENZA DELL’ IMPERIALISMO AMERICANO CON GLI ORDIGNI ATOMICI SOPRA HIROSHIMA E NAGASAKI NEL 1945, OGGI RIVIVE LA TRAGEDIA NUCLEARE IN NOME DEL PROFITTO

La catastrofe naturale che ha colpito il Giappone e la conseguente gravissima emergenza provocata dalle fughe radioattive della danneggiata centrale nucleare di Fukushima, ripropone con forza la necessità delle lotte delle popolazioni contro gli interessi del capitalismo ai danni della vita e dell’ ambiente.

Il compagno Tiziano Bagarolo del P. C. Lavoratori precocemente scomparso nel 2010, aveva analizzato con attenzione gli aspetti ambientali del pianeta e il legame che ci lega alle lotte per la sua difesa.

Riproponiamo due articoli presi tra i tanti dal suo Blog (ancora attivo) fonte preziosa di informazioni e idee. www.tbagarolo.blogspot.com

Ruggero Rognoni

Nucleare. Ritorna l'incubo plutonio?

Il rompicapo tossico delle scorie non lo risolveranno i reattori autofertilizzanti veloci

Riprendo da "greenreport" questa analisi inquietante sul riaffacciarsi dell'incubo plutonio come sbocco del rilancio dei programmi nucleari. Esamina la questione un recente rapporto dell'International Panel on Fissile Materials (IPFM), un centro di ricerca indipendente, che sulla base dell'esperienza passata,...[leggi tutto]