28/03/09

I Sovrani del Corpo

Il disegno di legge sul testamento biologico approvato in Commissione e attualmente in votazione al Senato - che ieri ha confermato l'impossibilità di sospendere l'idratazione e l'alimentazione forzate a prescindere dalla volontà del paziente anche quando è espressamente nota - non introduce affatto nel nostro ordinamento il testamento biologico o, come preferisce chiamarlo, la «dichiarazione anticipata di trattamento». Al contrario lo esclude sotto più aspetti che equivalgono ad altrettante negazioni dei principi di libertà e dignità della persona stabiliti dalla nostra Costituzione.
La sua norma più assurda, concepita chiaramente per volontà di rivalsa sulla conclusione del dramma di Eluana Englaro, è l'articolo 3 comma 6: «Alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». È con questo gioco di parole, chiamando «forme di sostegno vitale» e così escludendo dalla dichiarazione anticipata quelli che sono chiaramente trattamenti sanitari, che questa norma tenta di aggirare il divieto costituzionale che taluno sia ad essi sottoposto obbligatoriamente.
Ma la truffa non cambia la natura delle cose: a questi trattamenti o forme, se si preferisce, di sostegno vitale, dice l'articolo 32 della Costituzione, nessuno può essere obbligato.
C'è in proposito una questione che è di solito trascurata. Nel dibattito svoltosi sull'idratazione e sull'alimentazione forzata l'opinione pubblica si è divisa tra chi considera queste pratiche dei trattamenti terapeutici e chi le ritiene equivalenti al dar da bere agli assetati e da mangiare agli affamati. Ma la Costituzione non parla di «trattamenti terapeutici», bensì, più genericamente, di «trattamenti sanitari», cioè di interventi che richiedono l'assistenza di personale sanitario, l'apposizione di sonde o sondini, la somministrazione di preparati farmacologici e simili.
Ciò che insomma la Costituzione intende garantire, escludendo il carattere «obbligatorio» di tali interventi, è che non si possa essere «trattati» contro la propria volontà. Dovremo domani pretendere sempre, se questo principio costituzionale sarà violato, di morire nel nostro letto per non rischiare, una volta ricoverati in ospedale, di essere catturati da una macchina e di essere sottoposti, senza il nostro consenso, a idratazione e ad alimentazione forzate?
Ma c'è un secondo aspetto, più grave, di incostituzionalità e prima ancora di immoralità dell'idratazione e dell'alimentazione forzata. Queste pratiche, se non consentite dall'interessato, ledono non solo il diritto della persona di rifiutare trattamenti sanitari non graditi, ma anche l'habeas corpus e l'immunità da torture.
Negano non solo la libertà di autodeterminazione, secondo la bella massima di John Stuart Mill che «sul proprio corpo e sulla propria mente ciascuno è sovrano», ma ancor prima il diritto all'integrità personale. Dobbiamo infatti pur chiederci quali siano le condizioni di vita che l'idratazione forzata impone a una persona in coma irreversibile.
I sedicenti difensori della vita dovrebbero riflettere seriamente su questo problema. Il disegno di legge, si è visto, dice che alimentazione e idratazione sono, in qualsiasi forma, «finalizzate ad alleviare le sofferenze». Ma qui il gioco di parole è decisamente intollerabile. Come si può dire che simili trattamenti «alleviano le sofferenze» e non che, semmai, le moltiplicano e le prolungano senza fine?
Giacché i casi sono due. O la persona in coma irreversibile, come ritiene la scienza medica prevalente, è priva di qualsiasi forma di coscienza e sensibilità; e allora la cessazione dell'accanimento è imposta dal dovere, richiesto dall'articolo 32 della Costituzione oltre che dalla massima morale kantiana secondo cui nessuna persona può essere trattata come una «cosa», di «non violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Oppure quella persona, come hanno dichiarato molti «difensori della vita», conserva un qualche tipo di sensibilità o di vitalità consapevole; e allora il suo mantenimento in vita artificiale sarebbe ancor più atroce, infinitamente più atroce.
Pensiamo all'orrore e al terrore di chi, sia pure in qualche barlume di consapevolezza, comprendesse, senza possibilità di comunicare in alcun modo, di essere condannato per un tempo infinito a rimanere prigioniero delle macchine che lo nutrono, senza potersi muovere, né cambiare posizione, né parlare o sentire o vedere.
C'è insomma una grammatica del diritto e una semantica del linguaggio legale che nessun legislatore può violare. Non è permesso giocare con le parole, chiamando «alleviamento delle sofferenze» quello che, se sofferenze ci fossero, sarebbe un incubo terribile, e imponendolo come obbligatorio a quanti lo rifiutano. Pensiamo al terrore nel quale sarebbe costretto a vivere chi subisse una simile condanna a questa prigionia cupa e spaventosa, senza scampo e senza fine. Come non vedere nell'imposizione di questo inferno, di questa solitudine tremenda, di questa morte senza fine, una violazione della dignità della persona e, soprattutto, dell'habeas corpus e della libertà personale garantite dall'articolo 13 della Costituzione secondo cui «la libertà personale è inviolabile... E' punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà»?
C'è poi un terzo aspetto, forse il più insidioso, di incostituzionalità, oltre che di interna contraddittorietà della legge: la mancanza di un effettivo valore prescrittivo delle stesse «dichiarazioni anticipate di trattamento», da cui pure sono state escluse, a scanso di equivoci, l'idratazione e l'alimentazione artificiali. Benché l'articolo 4 le dichiari «vincolanti», tali dichiarazioni hanno infatti, in base all'articolo 7, il carattere di indicazioni soltanto orientative: sono solo, dice questa norma, «attentamente prese in considerazione dal medico curante» e «valutate... in applicazione del principio dell'inviolabilità della vita umana»; con la conseguenza che «il medico non può prenderle in considerazione» se sono «orientate a cagionare la morte del paziente».
Ma allora a cosa servono queste dichiarazioni? Giacché i medici, in contrasto con l'articolo 32 della Costituzione repubblicana, ben potranno o addirittura dovranno ignorarle e costringere il paziente a subire trattamenti da lui non voluti. Servono, in realtà, a far sì che sia disattesa la volontà del paziente tutte le volte che mancano. «In assenza di dichiarazione anticipata di trattamento», dice infatti l'articolo 3 comma 5, «sono garantite tutte le terapie finalizzate alla tutela della vita e della salute, ad eccezione esclusiva di quelle configurate come accanimento terapeutico». La dichiarazione, aggiunge l'articolo 4 comma 3, «ha validità per cinque anni, termine oltre il quale perde efficacia».
E' qui che si manifesta l'intento truffaldino della legge. I medici non solo potranno, ma dovranno ignorare la volontà del paziente non manifestata nelle forme della dichiarazione anticipata, cioè nella stragrande maggioranza dei casi. Nessun valore avranno, per esempio, una lettera nella quale l'interessato avrà espresso chiaramente la sua volontà, o la testimonianza di parenti od amici, o qualunque altro tipo di dichiarazione orale, o comunque informale ma inequivoca resa prima di perdere coscienza.
Non avranno valore, se scadute, neppure le dichiarazioni anticipate, dato che, si suppone, il paziente potrebbe, dopo cinque anni, aver cambiato idea: dove non si capisce, al di là del fatto che su questioni di questa natura di solito non si cambia idea, perché mai, nel caso di dichiarazioni scadute, debba presumersi una volontà opposta del paziente e perciò la scelta di mettergli le mani addosso anziché quella di lasciarlo morire in pace, come avrebbe voluto, di morte naturale. Capovolgendo il senso del testamento biologico, queste norme trasformano insomma la «dichiarazione anticipata» in una sorta di prova legale, in assenza della quale si presume, arbitrariamente e illogicamente, la non-volontà o la volontà contraria dell'interessato.
Ne consegue un quarto profilo di incostituzionalità del disegno di legge: la lesione del principio di uguaglianza stabilito dall'articolo 3 della Costituzione. Il diritto del paziente al consenso informato quale condizione della legittimità di qualunque trattamento sanitario è infatti garantito dalla legge, in conformità alla Costituzione, a tutte le persone vigili e consapevoli.
Questo testo, escludendo di fatto che una persona possa lasciar detto di non volere essere sottoposta, in caso di coma irreversibile, a inutili trattamenti, nega questo diritto a una specifica classe di pazienti: i pazienti in coma i quali, solo perché in condizione di menomazione e di inferiorità, vengono così discriminati e sottoposti, contro la loro volontà, a interventi invasivi e, forse, a torture sanitarie obbligatorie.
dal Manifesto del 27/3/09

1 commento:

Mattia ha detto...

A qualche mese di distanza dal caso di Eluana, che ha solo portato agli occhi di tutti un problema sempre esistito, ma che sembra purtroppo già tramontato, desidero lasciare un mio commento e continuare a discutere un tema che trovo davvero importante.

E' evidente come chi presenta un disegno di legge così assurdo abbia degli interessi politici volti a soddisfare determinate caste e non certo l'obbiettivo di tutelare tutti, indipendentemente da quale sia la loro volontà a riguardo.
Se così non fosse trovo assai semplice capire come ogni individuo debba essere lasciato libero di decidere per se della propria vita e quindi di poter fare testamento con piena libertà decisionale sul suo destino.

Personalmente, da anti-cattolico convinto, do alla vita un senso completamente ateo e qualora non valga la pena di essere vissuta trovo giusto che termini naturalmente (se è questo che l'individuo preferisce) o che addirittura sia "forzata" verso la fine se le condizioni sono tali da portare la persona a prendere una tale decisione.

Cito testualmente l'affermazione convinta di un mio amico: "se dovessi perdere entrambe le gambe e le braccia ti prego di spararmi".
Ci sono condizioni di piena coscienza nelle quali l'individuo, per conservare la propria dignità, dovrebbe essere altrettanto padrone del suo destino.

Meno banale è forse l'affermazione del fatto che "una persona difficilmente possa cambiare idea su questo tema".
Personalmente so bene cosa vorrei se dovessi cadere in un coma irreversibile, ma non posso escludere con piena certezza che, seppure in quelle condizioni, conserverei questa opinione.

A tale proposito credo che lascerei ad un mio parente o amico, l'arduo compito di decidere per me.
Non dimentichiamo che a soffrire non sono solo le persone sdraiate in un letto d'ospedale, ma anche tutte quelle che, quotidianamente, gli stringono la mano nella vana speranza di un risveglio.

Personalmente vorrei poter rimanere in uno stato vegetativo per un periodo massimo di qualche mese durante il quale, se realmente ci fosse uno stato di semi coscienza, potrei forse metabolizzare quello che mi sta accadendo. Dopo tale periodo che siano mio padre e mia madre a decidere del mio destino.... sono certo che saprebbero fare la scelta giusta.