Pubblichiamo un articolo di Paolo Brini (comitato Centrale Fiom-Cgil)
Accordo AST: hanno capitolato i vertici sindacali, non i lavoratori.
“Era il miglior accordo possibile. Di più non era possibile ottenere
altrimenti l’azienda avrebbe rotto il tavolo”. Queste parole usate
durante le assemblee svolte giovedì 4 dicembre dai rappresentanti di
Fim-Fiom-Uilm-Ugl per giustificare l’ipotesi di accordo siglata la sera
prima, più di ogni altra sintetizzano il senso dell’esito della
vertenza. Pur essendo in presenza di una lotta esemplare e senza
precedenti negli ultimi anni da parte dei lavoratori. Nonostante uno
sciopero ad oltranza che andava avanti da oltre 35 giorni, si è permesso
ancora una volta che a tenere in mano il pallino della partita fosse il
padrone perchè terrorizzati che potesse “rompere il tavolo”.
Il risultato di questa paura è stato la firma di un accordo che è nella
sostanza quello stesso lodo Guidi respinto due mesi fa con in più un
formale quanto aleatorio impegno dell’azienda a tener in vita entrambe
le produzioni (caldo e freddo) per 4 anni. Non è di certo un caso se
nelle assemblee nessuno davanti ai lavoratori AST si sia azzardato a
usare toni trionfalistici ma ci si è limitati ad un più caustico
“l’accordo è dignitoso”…e chi conosce il sindacalese sa bene cosa si
intende con questo genere di espressioni.
Qualche settimana prima dell’intesa il compagno Landini, segretario
della Fiom, aveva perentoriamente e giustamente dichiarato “Non possiamo
accettare una piattaforma che prevede licenziamenti e diminuzione dei
salari”. Ancora qualche giorno fa, durante l’ultimo Comitato Centrale ad
accordo ormai firmato, egli ha ribadito che l’accordo non prevede né
esuberi né riduzioni delle retribuzioni.
I testi e i fatti però stanno a dimostrare l’esatto contrario.
Che l’accodo faccia acqua da tutte le parti lo ammettono i sindacati
stessi. Neanche 10 giorni dopo la firma, i segretari locali di
Fim-Fiom-Uilm sono stati costretti a dichiarare che quello dell’azienda
è “complessivamente un atteggiamento di potenziale inadempienza rispetto
a quanto discusso e definito in sede ministeriale” (Umbria24 del
11/12/2014).
Una volta ottenuto il suo obbiettivo principale, cioè la fine dello
sciopero a oltranza, l’azienda ha da subito iniziato a fare quello che
ha voluto. Ma da un padrone che ha più volte dimostrato di non avere
scrupoli cosa altro ci si poteva aspettare in queste circostanze? Per
questo i vertici sindacali hanno responsabilità ancora più gravi sia per
aver accettato questo accordo e sia per aver posto fine alla lotta.
Esuberi e riduzione del salario
L’accordo siglato al ministero prevede una mobilità su base
volontaria per 140 lavoratori, che sommati ai 150 che già avevano
accettato l’incentivo all’esodo aziendale fanno un totale di 290 posti
di lavoro in meno. Questo numero è esattamente identico a quello
proposto nel lodo Guidi che all’epoca venne respinto dai sindacati
perché, si diceva, con 290 lavoratori in meno di fatto l’azienda avrebbe
iniziato un percorso inesorabile verso la dismissione. Verrebbe da
chiedersi come mai il 3 dicembre si è accettato quello che si è
rifiutato l’8 ottobre.
Ma la beffa è ancora più grande se si tiene presente che ad oggi il
numero di coloro che se ne sono andati è arrivato attorno ai 400.
Infatti al momento del referendum si è constatato che il numero dei
dipendenti AST era già sceso sotto ai 2400 soglia ritenuta minima ed
invalicabile che i vertici aziendali avevano garantito non voler
ulteriormente ridurre. Al 16 dicembre si contavano 2389 dipendenti. Oggi
sono ancora meno e la tendenza è a diminuire ancora. Come tutto ciò sia
possibile lo racconta candidamente il responsabile del personale AST,
Arturo Ferrucci, confermando in data 11 dicembre che il programma di
uscita incentivato (che è altra cosa dalla mobilità siglata in sede
ministeriale e che ovviamente è gestito interamente ed unilateralmente
dall’azienda) resterà aperto fino al 3 aprile 2015. In queste condizioni
non è un caso che su una delle due linee a caldo i turni siano stati
ridotti da 21 a 15. Il paradosso è che fu proprio l’opposizione degli
operai a questa riduzione di turni che diede inizio ai 35 giorni di
sciopero ad oltranza. A ottobre questo provvedimento aziendale era
ritenuto giustamente l’anticamera della chiusura delle lavorazione a
caldo e quindi l’inizio della fine dello stabilimento, perché oggi non
più?
Sul versante salariale poi, la questione ha assunto dinamiche a dir poco
grottesche. Come si possa sostenere che i livelli retributivi non sono
stati toccati quando l’accordo prevede una riduzione dei costi per la
contrattazione aziendale dai 17 milioni di euro precedenti a circa 8,2
milioni attuali è un mistero. Cosa invece l’azienda intenda, lo ha
prontamente chiarito. Infatti da un lato sono spariti dal salario
aziendale sia le voci PRA (parte consolidata) che PPS (parte variabile)
con una perdita trimestrale che va dai 180 ai 300 euro a testa per
lavoratore. In più sono sparite anche le quote di salario fisso legate
alla professionalità (il cosiddetto “0,5”). In tutto questo il paradosso
è che i vertici sindacali si stanno lamentando pubblicamente di come
l’azienda non stia mantenendo la promessa fatta sul tavolo ministeriale
di riconoscere ai lavoratori almeno i 180 euro del premio. Peccato che
questa “promessa” sia stata fatta solo verbalmente. C’è bisogno di
scomodare i latini per ricordare che “verba volant”? L’azienda ha
provveduto a ribadire che quei soldi erano parte di un accordo “vecchio e
ormai disdettato” . Dal suo punto di vista in effetti non fa una piega.
Viene piuttosto da chiedersi da quando in qua un sindacato accetta come
valide le promesse dei padroni senza metterle per iscritto. Se si pensa
che sul salario questo sia tutto e che almeno il “vecchio” premio di
723 euro erogato a luglio di ogni anno resti invariato, fisso e sicuro,
ci si sbaglia di grosso. L’azienda precisa prontamente che “il nuovo
accordo prevede il pagamento, a luglio 2015, di una somma tutta da
definire” (Umbria24 13/12/2014). In effetti, se si legge con attenzione
il testo siglato il 3 dicembre in merito, si noterà che quello che prima
era un “Premio di Produzione” ora è stato trasformato in un “Premio di
Produttività”. In sindacalese purtroppo i termini sono molto importanti e
soprattutto non sempre sono sinonimo, anzi quasi mai.
Abbandono di precari e lavoratori delle ditte esterne
Un altro punto grave dell’intesa è la totale rinuncia a qualsiasi
accordo di salvaguardia per i lavoratori delle ditte esterne. Il testo
si limita infatti a trascrivere quanto previsto dal CCNL metalmeccanici,
il quale al di là di impegni verbali e buoni propositi non garantisce
nulla ai dipendenti delle ditte appaltatrici.
Fin da principio la lotta per la difesa delle acciaierie di Terni è
stata portata avanti fianco a fianco dai dipendenti AST e dai dipendenti
delle 26 ditte esterne operanti nel sito. Durante ogni fase i vertici
sindacali hanno garantito che la vertenza sarebbe stata una sola e unica
per tutti. Alla fine invece le cose sono andate in maniera
diametralmente opposta. Il mancato inserimento della clausola di
salvaguardia avrà ora delle conseguenze drammatiche per quei lavoratori.
Thyssen ha già avviato trattative al ribasso con ciascuna ditta esterna
per ottenere una riduzione dei costi di almeno il 20% a partire da
settembre 2015. Ciò significherà senza dubbio ricatti, perdita di posti
di lavoro nonché un pericolo enorme di infiltrazione di ditte legate
alla malavita organizzata. Non è un caso se tra i 1200 dipendenti degli
appalti, ad un referendum che per loro aveva valore solo “consultivo”
(aggiungendo così al danno la beffa), si sono presentati al voto solo in
173, ovvero il 15%…e Cgil-Cisl-Uil locali hanno anche avuto il coraggio
di esprimere “soddisfazione per quello che è un percorso
nuovo” (Umbria24 19/12/2014).
Anche per tempi determinati e apprendisti non vi è nulla di certo. Il
testo si limita laconicamente a scrivere che essi “non sono considerati
ai fini della determinazione dell’esubero strutturale dell’azienda”.
Decisamente troppo vago per essere una rassicurazione di rinnovo dei
loro contratti.
Quali garanzie di investimenti?
Il grande fumo negli occhi di questo accordo sarebbero le garanzie
avanzate dall’azienda di conservare il sito produttivo di Terni e anzi
di rilanciarlo. In realtà l’impegno da parte aziendale di investire in 4
anni circa 130 milioni di euro complessivi risulta davvero uno
specchietto per le allodole. Non solo perché non vi è alcun dettaglio su
come verranno spesi questi soldi, ma soprattutto perché questa cifra è
palesemente insufficiente. Chiunque sia nel settore sa che quelle cifre
bastano a malapena per la gestione ordinaria dell’impianto e che la mole
di denaro necessaria per fare davvero investimenti di rilancio è ben
altra. È la stessa storia di Terni a dimostrarlo. Quando nel 2004 si
dismise la lavorazione del magnetico, per rilanciare lo stabilimento
furono spesi almeno 600 milioni di euro. Non solo. Sul capo della AST
pende ora la spada di Damocle di una indagine per disastro ambientale
che se confermata, come tutti i rilevamenti dimostrano, dovrebbe portare
l’azienda a impiegare quantità enormi di denaro per rimediare ad una
situazione che se non è paragonabile a quello dell’ILVA a Taranto poco
ci manca.
Infine, la domanda più banale ed elementare che sorge spontanea è la
seguente: come si può pensare di rilanciare uno stabilimento nel quale
si sta accettando di allontanare ben 400 dipendenti senza avere alcuna
intenzione di rimpiazzarli?
Non è certo un caso se la rete commerciale del sito ternano verrà
gestita direttamente dalla sede tedesca e se si è avviata una diaspora
di dirigenti aziendali culminata con le dimissioni di Luca Italia che
nella struttura commerciale di AST era una figura chiave. Come si può
pensare davvero, in una logica capitalista, di rilanciare l’acciaieria
umbra senza una vera struttura commerciale? Semplicemente non si può.
Punto e basta.
Se tutto questo non bastasse a gettare ancora più benzina sul fuoco sono
arrivate le dichiarazioni dell’amministratore delegato di Thyssen,
Heinrich Hiesinger. Non più tardi del 22 novembre, sul giornale
Suddeutsche Zeitung, l’AD ha affermato che “il gruppo acciaio Thyssen
non esiste più” avanzando la possibilità concreta che il gruppo ceda il
settore siderurgico al migliore offerente con conseguenze così
preoccupanti per tutti i dipendenti che pure gli operai tedeschi del
sito di Duisburg sono scesi in sciopero!
Come non tener conto di tutto questo in una trattativa che si è chiusa
due settimane più tardi? Come poter credere alle promesse ed alle favole
di un’azienda che ha dimostrato in ogni momento di non essere
minimamente interessata alla produzione o al destino dei lavoratori ma
solo ai propri profitti?
Quale alternativa?
Dopo questa lunga analisi non possiamo che ritenere francamente fuori
luogo i toni trionfalistici usati dalla Fiom per descrivere questo
accordo. Per affermare la bontà dell’accordo si sbandiera l’esito del
referendum che ha visto al voto l’80% dei dipendenti AST e una vittoria
schiacciante dei “sì”. Pur rispettando e riconoscendo l’esito della
consultazione, ci permettiamo di far rilevare che quando si è chiamati a
scegliere tra un accordo per 290 esuberi “volontari” e un non accordo
per 550 esuberi imposti dall’azienda è facile prevedere l’esito della
consultazione. Il peso del ricatto e della pressione aziendale, una
volta terminato lo sciopero, ha fatto il resto.
Non possiamo nemmeno accettare che ci si dica che criticare questa
intesa significa mancare di rispetto alla dura lotta dei lavoratori
della Thyssen. Sostenere queste argomentazioni è non solo strumentale ma
fuorviante. In questo modo semplicemente si vuol rifiutare di discutere
del merito. É proprio perchè riteniamo la lotta degli operai ternani
meravigliosa ed esemplare che critichiamo questo accordo. Tanto eroismo e
tanto coraggio meritava una conclusione ben migliore di questa!
A meno che non ci si dica appunto, come detto ai lavoratori in
assemblea, che non era possibile ottenere di più. Allora si pone la
questione di fondo di tutta la vertenza. C’erano alternative a un
accordo che ha avuto come unico effetto quello di fiaccare il fronte di
lotta operaio?
La risposta che fin dall’inizio abbiamo provato a dare è che sì,
un’alternativa, una sola, c’era eccome. Quella di occupare davvero la
fabbrica (perché al contrario di quello che pensa il compagno Landini,
occupare è ben diverso che presidiare ad oltranza i cancelli
dall’esterno). Usare l’autogestione come forma di lotta volta a
dimostrare che gli operai non hanno bisogno del padrone per mandare
avanti una fabbrica. Rivendicarne l’esproprio senza indennizzo e la
nazionalizzazione sotto controllo operaio.
Più volte ci è stato detto che siamo dei sognatori, che tutto questo non
sarebbe stato possibile. Alcuni avanzando argomentazioni “tecniche”
perchè occupare avrebbe posto il problema della sicurezza e salvaguardia
degli impianti. Altri avanzando la sempre verde tesi, dall’alto della
propria saccenteria, che gli operai non sarebbero stati in grado di
occupare la fabbrica perchè troppo immaturi politicamente. A queste
argomentazioni, prima che nel merito, rispondiamo dicendo che è davvero
mancanza di rispetto verso i lavoratori nascondere se stessi e le
proprie paure dietro ai presunti limiti della classe operaia.
Da un punto di vista tecnico, sono 130 anni che i lavoratori di Terni
mandano avanti l’acciaieria, affrontando e risolvendo anche i problemi
della sicurezza. Se la fabbrica fosse stata occupata, i lavoratori
avrebbero semplicemente continuato a fare quello che hanno sempre fatto
da un secolo a questa parte.
Da un punto di vista del livello dello scontro, come si può pensare
davvero che lavoratori che hanno avuto il coraggio di sequestrare per 16
ore l’AD Lucia Morselli nel suo ufficio e di scioperare ad oltranza per
oltre un mese non avessero la coscienza o il coraggio per occupare la
fabbrica? Se vogliamo essere davvero sinceri, oltre ad ammettere che in
maniera neanche troppo sotterranea questa discussione è stata ben
presente tra gli operai, l’ora X per occupare, l’occasione per prendere
lo stabilimento c’è stata eccome. Quando? La notte del 11 novembre
quando dopo l’ennesimo incontro andato a vuoto al MISE, duemila operai
si sono riversati su viale Brin dando fuoco a portinerie e scatenando
una rivolta senza precedenti. Sarebbe stato sufficiente che un dirigente
della Fiom con un minimo di autorevolezza ai loro occhi intervenisse
per dire di occupare, e oggi saremmo di fronte ad un altro scenario.
Certo anche la Fiom avrebbe dovuto assumersi la responsabilità politica
di questa azione. Non avrebbe potuto e dovuto sottrarsi a un tale
compito, altrimenti a cosa serve un sindacato di classe?
Il punto è che invece i vertici sindacali hanno sempre voluto rifuggire
questa discussione. Piuttosto che parlare di occupare la fabbrica, il 12
novembre si è persino preferito portare i lavoratori ad occupare la A1!
Inutile dire che la AST occupata, nel momento in cui si stavano
svolgendo le lotte contro il jobs act, avrebbe cambiato letteralmente i
rapporti di forza a livello generale e Terni sarebbe diventato il punto
di riferimento ed il modello per tutti i lavoratori in lotta.
Certo, questo sviluppo avrebbe avuto anche un significato politico ben
preciso. Occupare la fabbrica avrebbe significato mettere in discussione
la proprietà privata. Avrebbe cioè messo in discussione chi comanda in
fabbrica e quindi avrebbe portato, su un piano generale, a mettere in
discussione chi comanda nella società. Se i padroni o gli operai. Ma
proprio questo è il senso vero anche di questa battaglia. Con l’attuale
livello di crisi le contraddizioni sociali, politiche ed economiche sono
tali che ad ogni vertenza il movimento operaio si trova davanti ad un
bivio. O si mettono in discussione le regole del gioco e quindi il
mercato e la proprietà privata o si capitola alla volontà del padrone.
Ci auguriamo che la lotta degli operai di Terni rappresenti un
patrimonio e una lezione preziosa per tutti e che tutti traggano le
necessarie conclusioni dal suo epilogo, soprattutto in Fiom. Per parte
nostra non possiamo che ringraziare dal profondo questi lavoratori per
la quantità innumerevole di cose che ci hanno insegnato con il loro
esempio.