Sono passati tre anni dalla
firma del Testo Unico sulla rappresentanza. Ricordiamo cosa sostiene
questo accordo, siglato da CGIL, CISL, UIL e Confindustria: la
rappresentanza sindacale è misurata da un rapporto tra tesseramento e
risultati RSU; i contratti devono essere firmati da organizzazioni che
abbiano almeno il 50%+1 della rappresentanza, con il voto del 50%+1
degli interessati. Nel contempo si prevede l’impossibilità di scioperare
contro questi accordi, anche se non li si condivide (con sanzioni per i
sindacati che li organizzano e anche per lavoratori e lavoratrici che
vi partecipano); l’incandidabilità (e conseguente inagibilità) se non si
condivide questa regola; la subordinazione delle RSU alla propria
organizzazione, pena la loro decadenza. Questo testo, come d’altronde la
successiva Carta dei Diritti, sottolinea quindi diritti e prerogative
delle organizzazioni sindacali, più che di lavoratori e lavoratrici. Il
“sindacato degli iscritti” compie così un passo avanti, informando in
qualche modo anche la stessa elaborazione della CGIL.
Il Testo Unico si propone quindi di disciplinare il comportamento di
lavoratori e lavoratrici in funzione dell’esigibilità padronale. In una
fase segnata dalla Grande Crisi, dalla necessità di recuperare ogni
margine di profitto attraverso il controllo dell’orario e
l’intensificazione dello sfruttamento, si prova a limitare il conflitto
nel lavoro: si vuole contenere quelle resistenze, quelle
insubordinazioni, quelle lotte che possono talvolta inceppare la
produzione. Si vuole controllare la variabile umana del capitale, la sua
parte viva, cercando di subordinare diritti, aspettative e desideri
degli uomini e delle donne inseriti nei processi produttivi. Si intende
cioè comprimere l’autonomia del lavoro. Per questo, oggi come tre anni
fa, siamo stati nettamente contrari a questo accordo.
La CGIL invece oggi lo celebra. In particolare, in una prima pagina
di Rassegna Sindacale, con un’intervista a Franco Martini, della
Segreteria confederale. Non finirò mai di stupirmi dell’inconcludenza
dell’attuale linea della CGIL (al netto dal mio dissenso da essa, a
partire dalla compressione di diritti fondamentali come quelli di
rappresentanza e di sciopero).
Questo accordo è inapplicato da tre anni, nella certificazione della
rappresentanza, perché Governo e padronato continuano a sabotarlo (lo
riconosce persino Martini nella sua intervista). Nella frenesia di
smantellare contratti e diritti, non vogliono neppure provare a fare i
conti con i possibili lacci e lacciuoli di un’impalcatura democratica
che si è dovuto erigere per poterne rendere digeribile l’esigibilità. I
sindacati hanno quindi dovuto iniziare a dimostrare “responsabilità”
(come per esempio ha fatto la FIOM in FCA, sospendendo ogni azione di
sciopero nei sabati comandati, sia quando questi erano seguiti da una
parte limitata di lavoratori e lavoratrici come talvolta a Melfi, sia
quando ottenevano partecipazioni ragguardevoli come talvolta a Termoli),
senza mai ottenere le previste certificazioni ed i relativi processi di
voto (come si vede con le tante RSU non rinnovate, come si è dimostrato
recentemente nell’igiene ambientale, dove la consultazione sul rinnovo
contrattuale tutto è stata, eccetto che trasparente e verificabile).
Allora come si fa a celebrare questo accordo se mille e più giorni
dopo, a fronte di tutto quello che si è ceduto, ancora non si vede alba
di come sarà effettivamente concretizzato sia il processo di
certificazione, sia quello di definizione delle rispettive platee di RSU
ed il loro regolare rinnovo?
Questo accordo, si ricorda poi, avrebbe permesso un profondo
rinnovamento del sindacalismo confederale nel segno dell’unità. Ora, di
questa nuova stagione unitaria non vedo particolare traccia. Il
contrasto al governo Renzi, a partire dal Jobs Act, è stato portato
avanti dalla sola CGIL, a cui poi è seguita la UIL il 12 dicembre. La
stessa Carta dei Diritti ed i successivi referendum, il baricentro
dell’iniziativa CGIL dopo la ritirata sul Jobs Act, sono stati condotti
in splendida solitudine. Anzi, proprio in queste settimane, CISL e UIL
si sono espresse frontalmente contro questa strategia. Mentre le
iniziative unitarie condotte sono state eteree (qualcuno ricorda la
campagna estiva su fisco e pensioni nel 2014 o le assemblee contro la
Legge di stabilità nel dicembre 2015?), o ancora limitate a specifici
settori e talvolta contrastate dalle rispettive confederazioni (grande
distribuzione e scuola). Le cronache sindacali di questi ultimi trenta
mesi, quindi, non sono state segnate da particolari processi unitari.
Ancor meno da profondi rinnovamenti: quello che talvolta ha dominato i
titoli dei giornali, e che probabilmente inciderà anche sui prossimi
congressi di CISL e UIL, è invece stata l’emersione di vari scandali
sull’utilizzo delle risorse. Pratiche dubbie - dagli emolumenti dei
dirigenti CISL ai “seminari in crociera” della segreteria UIL -
contrastate con iniziative evanescenti, che pongono oggettivamente molte
incertezze sul rinnovamento in corso. Allora, anche su questo versante,
sulla supposta costruzione di un sindacalismo confederale rinnovato e
radicato nei luoghi di lavoro, sia lecito avanzare qualche dubbio che
rende difficile oggi celebrare il Testo Unico come momento di svolta.
Infine, si richiama la complicatissima stagione dei rinnovi in
corso. Una stagione effettivamente segnata da una linea unitaria,
definita intorno allo scambio tra un controllo padronale
sull’organizzazione del lavoro (produttività, competitività, efficienza)
e una «crescita dei salari, non solo riferita alla tutela del potere
d’acquisto, per la generalità delle lavoratrici e dei lavoratori». Una
stagione che, non ancora conclusa, appare inconcludente nei risultati: i
limitati aumenti sin qui ottenuti (tra i 70 ed i 100 euro a seconda dei
contratti) sono stati pagati pesantemente non solo sul fronte
dell’organizzazione del lavoro, ma anche dei sottoinquadramenti,
dell’aumento dell’orario, del prolungamento quadriennale dei CCNL. Per
di più, questi cedimenti sono stati distribuiti nei diversi contratti a
seconda delle differenti condizioni, sfumando significativamente la
tenuta di una linea confederalmente unitaria. Per la prima volta (a
memoria di sindacalista), inoltre, questa stagione ha conosciuto persino
la sospensione degli aumenti previsti in un contratto firmato
(commercio, novembre 2016): introducendo il dubbio che ogni accordo
possa essere oggi scritto sull’acqua, soggetto all’andamento economico o
ai rapporti di forza della contingenza.
Questa stagione, infine, ha visto il rinnovo dei meccanici. Un
rinnovo, però, su un impianto diverso da quello degli altri contratti:
da una parte si sono accettate le flessibilità organizzative del 2012
(del precedente contratto separato), ma dall’altra non si sono
conquistati neppure i pochi spiccioli previsti negli altri contratti.
Anzi, si è limitato il CCNL alla pura registrazione dell’aumento
dell’inflazione a posteriori, inserendo per la prima volta forme estese
di welfare contrattuale, sfibrando quindi nel complesso la stessa logica
di un contratto nazionale. Allora, ci domandiamo, quale reale
produzione “unitaria” ha rappresentato e sta rappresentando questa
stagione contrattuale? Siamo proprio sicuri si possa celebrare il Testo
Unico (che proprio tra i metalmeccanici ha così inciso nella definizione
di un percorso unitario, come ha ammesso lo stesso Landini) come un
passaggio fondamentale per l’insieme del mondo del lavoro?
Il punto, allora, è che forse non si dovrebbe celebrare questo
accordo. Un testo unico che restringe la democrazia nei luoghi di
lavoro, che a mille giorni di distanza è ancora parzialmente inapplicato
e che si sta anche dimostrando incapace di segnare una reale prassi
ricompositiva del lavoro. Un Testo per fortuna ancora inconcluso che
speriamo si areni nel nulla, messo in discussione nelle prassi concrete
dalla necessaria ripresa di un conflitto diffuso, al di dà delle rituali
celebrazioni sindacali.
Il punto, allora, è che forse la CGIL dovrebbe smetterla, di fronte
agli attacchi volgari e sguaiati dell'Unità e del PD, di fronte a chi
oramai oggi si è schierato dalla parte del padrone, di sottolineare la
propria buona volontà. Dovrebbe invece cogliere questa occasione per
trarre un bilancio delle inconcludenze di una linea, tesa alla ricerca
di una cogestione con governo e padronato, di fronte ad un governo ed un
padronato che non intendono invece costruire nessun compromesso con il
lavoro. Dovrebbero quindi cogliere l’occasione di una svolta: difendere
finalmente, con orgoglio e determinazione, l’autonomia del lavoro,
riprendendo a dispiegare il conflitto sociale, per cambiare nel paese e
nei posti di lavoro i rapporti di forza tra le classi.
Luca Scacchi
Direttivo nazionale CGIL
Il sindacato è un'altra cosa - opposizione CGIL