14/07/09

I CAPITALISTI DEVONO PAGARE PER LA CRISI! I LAVORATORI DEVONO PRENDERE IL POTERE!


Dichiarazione del Consiglio esecutivo del Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale (CRQI)

(Buenos Aires, 14 aprile 2009)


1. In questo primo maggio 2009, giornata internazionale dei lavoratori, il proletariato e le masse popolari del mondo stanno affrontando una crisi senza precedenti ed una situazione storica eccezionale.
La crisi capitalista mondiale distrugge le vite di milioni di persone su tutto il pianeta, condannandoli all’espropriazione, alla disoccupazione, all’indigenza, alla miseria e per di più alla guerra ed alla repressione. Ma allo stesso tempo, sebbene il peso della crisi sia sentito terribilmente, la resistenza alle barbarie del capitalismo sta crescendo. Emerge un’onda crescente di lotte sociali, scioperi di massa, occupazioni e ribellioni popolari come in Grecia o a Guadalupe.
Il Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale (CRQI) chiama la classe operaia internazionale, tutti gli oppressi e gli sfruttati a mobilitarsi per porre un termine a qeusta catastrofe sociale, rifiutandosi di esser sepolti sotto le rovine della bancarotta del capitalismo mondiale. I capitalisti devono pagare per la crisi del loro sistema! Il capitale espropria le nostre vite, espropriamo noi il capitale ed apriamo una via d’uscita socialista dall’attuale devastazione!

2. I capitalisti stessi hanno ammesso che la presente crisi, esplosa nel 2007 con lo scoppio della bolla dei subprime americani e il conseguente credit crunch internazionale, non è semplicemente un episodio ciclico od un problema congiunturale. E’ la crisi peggiore dal crollo del 1929 e dalla Grande Depressione. Ha una dimensione storica per portata e profondità, colpisce l’economia mondiale nel suo complesso e non se ne vede la fine all’orizzonte.
Ormai è evidente che non colpisce solamente il settore finanziario, ma l’intera economia capitalista dominata per una decade da una lunga sovra espansione del capitale finanziario che si è connesso, ha invaso e controllato globalmente tutti gli aspetti della vita economica.
La crisi che si è prima manifestata nel 2007/08 nella sfera finanziaria portando il sistema bancario internazionale alla bancarotta, adesso sta portando ad una Grande Recessione (il termine è coniato da Martin Wolf sul Financial Times), che inghiotte tutto il cosiddetto mondo capitalista sviluppato e porta negli abissi le grande industrie come la General Motors e le altre imprese automobilistiche degli Usa, dell’Europa e dell’Asia. E’ solamente un intervento statale senza precedenti, i salvataggi ed i “pacchetti anticrisi” dell’ultimo periodo, che hanno permesso di evitare così a lungo, secondo Martin Wolf, una trasformazione della Grande Recessione in una nuova Grande Depressione.
Il World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, uscito nell’aprile 2009, prevede una contrazione dell’economia mondiale del 1.3%, correggendo al ribasso la sua precedente previsione del 0.5% del gennaio 2009. Un anno prima, nel 2008, il FMI aveva previsto una crescita del PIL mondiale per il 2009 del 3.8%....Da allora più di 60 milioni di nuovi disoccupati si sono aggiunti.
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), nella sua recente valutazione economica provvisoria (Economic Outlook) ha sottolineato come “l’economia mondiale è nel pieno della più profonda e sincronizzata recessione dei nostri tempi, causata da una crisi finanziaria globale e approfondita dal collasso nel commercio mondiale”. Come riporta il Financial Times, “negli USA il tasso di declino della produzione manifatturiera è comparabile a quella della Grande Depressione. La produzione manifatturiera giapponese è già caduta quasi come negli Stati Uniti durante gli anni ’30” (FT, 21 aprile 09). La Gran Bretagna e l’Eurozona sono già entrambe in recessione. Le attuali previsioni del FMI per le economie dell’Eurozona ipotizzano una contrazione del 4.2% nel 2009 e un prosieguo della recessione per il 2010, mentre la disoccupazione dovrebbe balzare al 10.1% quest’anno e all’11.5% nel prossimo. L’OCSE prevede che l’economia tedesca potrebbe contrarsi anche del 5.3% nel 2009. “Una contrazione di cinque punti rappresenterebbe il declino più significativo per la Germania, escludendo la devastazione dell’immediato dopoguerra tra il 1945 ed il 1948, quasi quello della Grande depressione nel 1932, quando la contrazione economica fu grossomodo del 7.5%. Considerando che il Pil tedesco è pari a tre volte la produzione combinata di tutti i sui vicini centroeuropei, il crollo avrà certo un immenso effetto sul resto dell’Europa” (Stratfor, 21/4/09).
La recessione mondiale esprime non solamente una crisi di sovrapproduzione di capitale, ma anche il fatto che le basi su cui si è strutturato nell’ultimo periodo storico il processo mondiale di accumulazione di capitale sono collassate.
Non è solo il fallimento del cosiddetto “modello neoliberista” dell’ “eccesso di speculazione finanziaria”. La stessa globalizzazione finanziaria del capitale è il risultato di un lungo processo storico di sviluppo di tutte le contraddizione del capitalismo durante un epoca imperialista di declino capitalista, di guerre e rivoluzioni, dalla Grande Guerra alla Rivoluzione di Ottobre, dal crollo del ‘29 al periodo del dopoguerra, sino alle crisi seguite al collasso del sistema di Bretton Woods nei primi anni ’70.

3. Il trasferimento del capitale nella finanza dei primi anni ‘80 e la sua globalizzazione nelle ultime decadi, segnato da successivi shocks e crolli (1984, 1987, 1989, 1997), ha creato una gigantesca piramide di capitale fittizio per sostenere la riproduzione del sistema. Questo processo ha raggiunto il suo apice nel periodo fra il 2002 ed il 2007, dopo il disordine internazionale del 1997-2001, con la produzione di ogni tipo di bolle e di nuovi, “esotici” strumenti finanziari (ora indicati come “tossici”). Il mercato dei derivati ha raggiunto proporzioni mitiche, un oceano di 550mila miliardi di dollari, in rapporto ad un valore del PIL mondiale intorno ai 60mila miliardi di dollari. La sproporzione tra questo Leviatano di capitale fittizio e parassita, che non produce valore e che aggrava la crisi di sovrapproduzione di capitale, con il plusvalore globalmente disponibile estratto dallo sfruttamento dei produttori diretti, pone un enorme ostacolo al processo di valorizzazione. Il capitale trova i suoi limiti storici in sé stesso.
Sebbene la crisi stia portando alla tendenza ad aumentare enormemente i tassi di sfruttamento (il plusvalore relativo ed assoluto) con ogni mezzo vecchio e nuovo (come la flessibilità nelle relazioni di lavoro, ecc), questa sproporzione è tale che è impossibile superare la crisi. Non sono le tecniche introdotte per estrarre il plusvalore che hanno raggiunto i loro limiti, è lo stesso plusvalore come forma sociale del sovrappiù (plusprodotto), la legge del valore come principio regolatore della vita economica, che mostra i suoi limiti storici ed il suo carattere antiquato.
Per il capitale la crisi è la sola uscita dalla crisi. Deve distruggere le gigantesche capacità che ha accumulato per restaurare il tasso di profitto e riattivare il processo di accumulazione. Questo processo catastrofico è già partito: nel suo ultimo Report sulla stabilità finanziaria mondiale, il FMI stima che è stato distrutto sino ad oggi un capitale di circa 4mila miliardi di dollari solo nel settore finanziario, e le perdite stanno ancora continuando. Questo importo, sebbene impressionante, è solo una parte infinitesima del capitale fittizio (e produttivo) che è stato distrutto in accordo con le leggi dell’accumulazione capitalista.
La catastrofe che sta avanzando comporta la distruzione massiccia del capitale in eccesso, delle forze produttive nel mondo e innanzitutto della più importante forza sociale della produzione, la classe lavoratrice stessa.
Questo è per sua natura un processo che si protrae nel tempo, non un collasso automatico ed istantaneo, né una caduta eterna in un abisso senza fine. L’attuale crisi mondiale segna un periodo di sconvolgimenti storici; comporta non semplicemente ristrutturazioni o aggiustamenti tecnico-economici, il controllo degli eccessi finanziari o dei paradisi fiscali offshore, ecc, ma un vasto processo di destabilizzazione, disintegrazione e riorganizzazione di tutte le relazioni sociali attraverso acuti conflitti politici e scontri violenti, sul piano nazionale ed internazionale.
Una transizione non è una serie di punti che si succedono linearmente, ma uno sviluppo dialettico di tutte le contraddizioni con conflitti acuti, zigzag, balzi, continuità e soluzioni di continuità.
L’attuale crisi diventa un enigma irrisolvibile se viene separato dal carattere transitorio della nostra epoca di capitalismo in declino.
L’incredibile “Torre di Babele” del capitale fittizio, la struttura del credito che è stata edificata nelle ultime decadi, è stata trasformata da strumento dell’espansione globale in un fattore centrale della disgregazione e della crisi globale. E’ la più evidente manifestazione della transizione storica in corso, dal capitalismo al socialismo mondiale e al comunismo, come Marx ha previsto:
“Se il credito appare come la principale leva della sovrapproduzione e della sovraspeculazione nel commercio, ciò avviene soltanto perchè il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene qui spinto al suo estremo limite [...] la valorizzazione del capitale, fondata sul carattere antagonista della produzione capitalista, permette l’effettivo, libero sviluppo soltanto fino ad un certo punto, quindi costituisce di fatto una catena ed un limite immanente della produzione, che viene continuamente spezzato dalsistema creditizio. Il sistema creditizio affretta quindi lo sviluppo delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino ad un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione.
Ecco i due caratteri immanenti al credito: da un lato, esso sviluppa la molla della produzione capitalista, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di gioco e di imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; dall’altro lato esso costituisce la forma della transizione ad un nuovo sistema di produzione” (K. Marx, Capital, vol. III p. 523, IV ed. 1989, Ed. Riuniti).

4. Dopo l’irruzione dell’attuale crisi capitalistica, particolarmente dopo la sua accelerazione nel settembre 2008, i capitalisti ed i loro governi hanno cercato di trovare una via d’uscita in tre direzioni:
a. cercando di stabilire nuovi regolamenti internazionali, una nuova architettura finanziaria se non una "Bretton Woods II";
b. guardando alla Cina, i cui imponenti tassi di crescita negli ultimi anni l’hanno fatta apparire come una possibile “locomotiva” in grado di portare l’economia mondiale a evitare il crollo;
c. soprattutto, con un intenso intervento dello Stato, iniettando impressionanti pacchetti di salvataggio nello sgretolato sistema bancario ed in quello industriale, introducendo nazionalizzazioni, ecc.
I risultati sino ad oggi sono deludenti per il capitalismo.
Le speranze di una nuova Bretton Wooods, di stabilire un nuovo ordine economico mondiale uscendo dal presente caos si sono dimostrate vane. Il Primo incontro del G20 a Washington, nel novembre 2008, si concluso con un fiasco. Il recente summit del G20 a Londra ha evitato un naufragio esplcito, ma non ha comunque raggiunto nessun degli obbiettivi auspicati (nuove regolazioni finanziarie sul piano internazionale, interventi di stimolo economico in Europa). Il più significativo obbiettivo raggiunto è stato solamente l’impegno del G20 ad aumentare le riserve del FMI da 500 a 1100 miliardi di dollari, includendo in questa somma 250 miliardi in Diritti Speciali di Prelievo, per permettergli un ruolo più attivo nel salvataggio dei paesi con un immediato rischio di default, prima di tutto quelli dell’Europa orientale. La banche europee hanno già un esposizione di 1600 miliardi di dollari con quei paesi e con la Turchia. Quell’importo non solo è insufficiente, ma gli interventi del FMI sono sempre legati a misure draconiane che esasperano le sofferenze sociali e provocano lotte di massa.
Forze centrifughe, tendenze protezioniste e antagonismi sono lontani da essere dissolti, indebolendo ogni sforzo per imporre una nuova regolazione internazionale. Gli USA usano in definitiva la loro egemonia nel capitalismo mondiale, edificata nel corso della storia, ed il ruolo del dollaro come riserva internazionale di valuta per stampare enormi quantità di dollari e così sostenere i suoi interventi, come il precedente Piano Paulson o il corrente Piano Obama. Ma l’oceano di attività tossiche diventa così senza limiti, talmente imprevedibile e contaminante che l’intero sforzo (di uscire dalla crisi) diventa una fatica di Sisifo.
Gli Stati Uniti hanno sino ad oggi iniettato circa 1200 miliardi di dollari nella loro economia. Il sovra indebitamento ed il deficit statunitense raggiungono insieme dimensioni astronomiche: la pressione sta salendo a tal punto da minacciare non solo la valuta americana, ma il collasso di tutte le relazioni monetarie internazionali. L’Unione Europea critica gli Stati Uniti che, esaurendo le risorse mondiali per affrontare la propria bancarotta, genera un insopportabile pressione che minaccia di disorganizzare sia l’Unione europea sia l’Unione Monetaria Europea.
5. La Cina, dall’altro lato, ha dimostrato di esser più una parte del problema che della soluzione. La recessione mondiale ha colpito duramente l’economia cinese. Il gennaio 2009 ha mostrato la peggior caduta delle importazioni (-41.3 % sull’anno) e degli investimenti diretti esteri (-32.7%), così come un caduta delle esportazioni del 17.5%.
Nonostante un coraggioso e molto pubblicizzato piano di stimoli di 500 miliardi di dollari, il Prodotto Interno Lordo cinese nel primo trimestre del 2009 è caduto al 6.1%, dimezzandosi rispetto al 13% del 2007 e calando rispetto al quarto trimestre del 2008. I giorni dei tassi annuali di crescita a due cifre, 12 o 13%, sono finiti. La caduta del PIL sta raggiungendo un livello già considerato da Partito Comunista Cinese e dalle autorità statali come pericoloso per la possibilità di innescare sommovimenti e rivolte sociali sia nei centri urbani che nelle campagne.
Le loro preoccupazione sono condivise dagli analisti dell’Occidente imperialista, che vedono pericoli di un “crescente dissenso che può esplodere in proteste e rivolte” (Stratfor April 15, 2009). Le ragioni di un’esplosione sociale sono radicate nella stessa struttura sociale cinese: “A livello essenziale, l’economia cinese si è strutturata nelle tre passate decadi sulla spinta delle esportazioni e degli investimenti esteri. Insieme, questi due elementi rimangono la spina dorsale dell’economia cinese. Sono un elemento di forza in tempi di sviluppo dell’economia globale, ma una palla al piede nel momento di una sua caduta globale. Sul piano nazionale solo un quarto circa del miliardo e trecento milioni di cinesi sono realmente parte di una “classe media” attiva economicamente o di un livello sociale superiore. Sebbene questo sia ancora un numero imponente, lascia quasi un miliardo di persone dalla parte di chi riceve” ( Stratfor 15/4/09).
La caduta della domanda mondiale di esportazioni cinesi a causa della contrazione del commercio mondiale, l’involarsi del capitale straniero a causa della progressiva bancarotta mondiale e la mancanza di un mercato capitalista domestico sviluppato: questi sono tutti elementi che rendono la Cina vulnerabile alla pressione della crisi mondiale. Una svolta nello sviluppo del mercato nazionale non può essere effettuata senza esasperare tutte le contraddizioni tra le campagne e le città, portando a movimenti di massa ed ad esplosioni sociali. Il processo di restaurazione del capitalismo ha permesso superprofitti per il capitale straniero e per una nascente classe media nazionale, come anche l’illusione di una nascente egemonia cinese mondiale nel prossimo XXI secolo. Ma siccome la struttura sociale della Cina è scossa dalla pressione della crisi mondiale, non solo le passate illusioni sono ora frantumate, ma anche la prospettiva di una nuova rivoluzione sociale in questo grande paese riappaiono all’orizzonte.
Il processo di restaurazione capitalista in Cina ha giocato un ruolo chiave per l’imperialismo statunitense nel finanziare il suo gigantesco deficit e sostenere la debole congiuntura dell’economia mondiale nel periodo 2002/2007. Adesso la crisi sta distruggendo questa interconnessione economica fra Cina ed USA, con enormi implicazioni sia sul piano internazionale che su quello cinese.
Anche la Russia è entrata nella sua peggior crisi dai tempi del default del 1998, scossa dalla caduta del prezzo del petrolio, dal collasso del rublo e dalla bancarotta della maggior parte dei suoi oligarchi sotto la pressione del capitale finanziario mondiale.
L’Europa orientale è stata trasformata in un buco nero che minaccia di prosciugare il sistema bancario europeo. L’euforia dell’Occidente imperialista seguita al collasso dei precedenti stati operai burocratizzati nel 1989-91, con l’apertura dell’integrazione del vasto spazio una volta sovietico nel mercato mondiale capitalista, è stata trasformata dal sogno storico del capitalismo in un incubo del primo XXI secolo.

6. Dopo decadi di “de regolazione” neoliberista e privatizzazione, l’intervento statale occupa di nuovo il centro della scena, a partire da un’iniezione di capitali senza precedenti, dal taglio del tasso di interesse, dalle garanzie e dagli aiuti statali attuati con le nazionalizzazioni nel 2007/08 in USA e gran Bretagna e poi estese in una nazione dopo l’altra dappertutto nel mondo.
Non c’è un ritorno al Keynesismo del dopoguerra o un revival del Welfare State nei paesi a capitalismo avanzato; gli Stati non si espandono ma distruggono i propri servizi pubblici (ospedali, educazione, ecc), privatizzandoli e accumulando deficit annuali e debito pubblico, per garantirsi le risorse per salvare banchieri e altri capitalisti. Infatti, c’è un rafforzamento del ruolo dello Stato capitalista come “salvatore di ultima istanza” del capitalismo in bancarotta. Il successo del suo intervento regolatore in economia è più che in dubbio. “Il mercato può esser scoppiato (bust per burst? O forse si può tradurre “il mercato può essere al tappeto”), così c’è lo Stato”, scrive Philip Stephens sul Financial Times (6/4/09).
Le nazionalizzazioni capitaliste, “la negazione del capitalismo entro lo stesso capitalismo”, sono un’azione estrema per salvare il capitale dalla bancarotta. Entro la struttura dell’attuale regime sociale, le nazionalizzazioni metteno il costo della crisi sulle spalle dei lavoratori attraverso la crescita del debito pubblico, la disoccupazione, l’inflazione, ecc. Dall’altra parte, è una manifestazione oggettiva del processo di preparazione e transizione alla proprietà collettiva dei lavoratori sotto il controllo e la gestione degli stessi produttori diretti.
Il feticismo dello Stato, espressione suprema del feticismo delle merci e del capitale, crea un’illusione negli stessi capitalisti. Per loro lo Stato, un’espressione delle relazioni sociali, è trasformato in una cosa o in un potere supremo, capace di assorbire tutti i debiti e sostenere l’intero capitale in bancarotta: la bancarotta dello Stato (la liquidazione del credito pubblico, il mancato pagamento del debito pubblico, l’abbattimento del sistema monetario, la disgregazione di tutti le relazioni inter-statali) è adesso in corso come una condensazione della crisi. Per l’umanità che lavora, la crisi pone oggettivamente la questione dello Stato, cioè la questione dello stesso potere politico.
Lo Stato, venendo avanti come mediatore delle contraddizioni del sistema, diventa il centro di intensi conflitti politici sia tra differenti gruppi concorrenti del capitale privato sia con i lavoratori e le masse popolari. La domanda “Chi pagherà per la crisi?” diventa la questione più centrale di tutte e più politicamente discussa. Allo stesso tempo, la domanda “chi governa la società?” e perciò la centralità del potere statale stesso diventa il punto focale della questione (la mela della discordia è proprio brutto).
Gli scontri tra lo Stato, gli interessi dei gruppi capitalisti e le masse alimenta l’instabilità politica e le crisi di regime. Stanno crescendo tendenze repressive bonapartiste ed allo stesso tempo sono portati avanti tutti i diversi tipi di astuzie democratico-borghesi, come quelle introdotte dalla nuova Amministrazione Obama, per deviare e neutralizzare lo scontento popolare, i movimenti sociali nascenti e le resistenze anti-imperialiste.

7. Il Capitalismo mondiale è entrato in questa nuova fase esplosiva della crisi avendo già alle sue spalle un decennio di guerre imperialiste che hanno devastato i Balcani, il Medio Oriente e l’Asia centrale, senza rendere possibile all’imperialismo, acquisire i risultati sperati.
La conduzione della guerra imperialista, espressione in se stessa delle contraddizioni irrisolte e acute del sistema nel periodo post guerra fredda, ha prodotto nuovi impasse.
La crociata terrorista della “guerra al terrore” lanciata dalla amministrazione Bush ha condotto ad un fallimento in Iraq e ad un vicolo cieco in Afghanistan, che ha completamente destabilizzato il Pakistan e l’intero subcontinente Indiano.
La strategia militare statunitense con l’amministrazione Obama sposta il suo baricentro verso l’Asia centrale non solo con un aumento di truppe Nato e USA, ma anche affinando una rete di alleanze e costruendo un nuovo ponte diplomatico verso la Russia e persino verso l’Iran.
La posizione dell’imperialismo statunitense è minata sia dalla crisi capitalistica mondiale, il cui centro si colloca proprio negli USA, sia dai rovesci militari in Iraq e Afghanistan. Gli antagonismi e le rivalità interimperialistiche crescono, ma questo non implica che una nuova superpotenza capitalistica possa rimpiazzare gli Stati Uniti quale egemone globale. Il capitalismo statunitense rappresenta il più alto punto di sviluppo storico del capitalismo mondiale e del suo declino. L’umanità deve ancora affrontare la vulcanica esplosione del capitalismo statunitense in declino, che non può trovare un equilibrio interno senza stabilire un nuovo equilibrio mondiale sotto la sua supremazia.
Il cambio di rotta strategico degli Stati Uniti trova grossi problemi con l’emergere del governo oscurantista sionista più razzista e di estrema destra in Israele, nel febbraio 2009, tre anni dopo la sconfitta dell’armata sionista in Libano nel 2006 e negli strascichi del genocidio dei civili palestinesi a Gaza tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009.L’elezione di un governo di coalizione estremamente reazionario è l’espressione della crisi e della difficoltà in cui si trovano i Sionisti e il progetto coloniale imperialista stesso. Contemporaneamente a ciò, la cosiddetta “soluzione dei due stati” con uno staterello palestinese di Bantustan impotenti, circondati dagli insediamenti sionisti e dall’esercito, è stata seppellita.
Il movimento nazionale palestinese deve emanciparsi sia dai collaboratori del sionismo e dell’imperialismo, la cosiddetta Autorità Palestinese, sia dalla direzione religiosa fondamentalista di Hamas, per riarmarsi con una tattica e una strategia rivoluzionarie, combattendo per la libertà di tutti i prigionieri politici, la demolizione del muro dell’Apartheid e lo smantellamento degli insediamenti, per il diritto al ritorno di tutti i rifugiati palestinesi alla loro terra, per il diritto all’autodeterminazione e per una repubblica socialista e laica su tutto il territorio della Palestina, nel quadro di una Federazione Socialista del Medio Oriente.
La ripresa del movimento operaio arabo, come si è visto negli scioperi di massa in Egitto, con la presenza di forze laiche e socialiste è un segno positivo del fatto che si sviluppano le condizioni per una sconfitta non solo della direzione della borghesia laica nazionalista in bancarotta, ma anche dei gruppi islamici reazionari che occupano da così tanto tempo la scena. Il nuovo livello della crisi capitalista ridisegna il panorama sociale fornendo nuove possibilità ai rivoluzionari in Palestina e nel Medio Oriente, per riunire le forze al di là delle divisioni etniche e religiose e combattere l’imperialismo e il sionismo sotto la bandiera della rivoluzione permanente.

8 . In America Latina, la crisi mondiale ha avuto ripercussioni su un continente già attraversato da grandi mobilitazioni e crisi politiche, legate alla crisi economica delle ultime decadi del XX secolo, che culminarono nell’Argentinazo del 2001. I partiti tradizionali della borghesia sono in completa bancarotta.
I regimi nazionalisti-indigenisti della regione andina erano l’espressione della profondità della crisi, non della sua soluzione. La loro politica di nazionalizzazioni parziali (e indennizzate) del grande capitale e di limitate mobilitazioni delle masse contro la destra tradizionale e l’imperialismo, stanno fallendo nel compito storico di strutturare stati nazionali indipendenti, e si vedono ora colpiti dalla caduta vertiginosa a livello mondiale dei prezzi delle materie prime, aumento che mette in questione le basi delle “politiche sociali” avanzate per conquistare il sostegno delle masse povere delle città e della campagna e allo stesso tempo per tenerle sotto controllo.
Essere obbligati a stabilire una linea di contenimento basata sulle alleanze con i governi sorti a sinistra (come nel caso del Brasile o di Michelle Bachelet in Cile) era l’espressione di un arretramento dell’imperialismo, complementare e non causa di contraddizioni al sostegno ai regimi paramilitari di destra (Messico e Colombia) e alla ripresa del nel pattugliamento delle coste orientali del continente da parte della Terza Flotta della Marina americana. Obama non solo si pone in continuità, ma approfondisce la politica di Bush, quando porta il “Grande accordo internazionale” sino al punto di iniziare la dissoluzione del blocco contro Cuba, che costituisce oltre al tentativo di preservare il dominio imperialista in condizioni di crisi eccezionale, la sconfitta storica di mezzo secolo di aggressioni e provocazioni statunitensi contro l’isola caraibica. Con i trattati bilaterali commerciali, gli Stati Uniti danno inoltre continuità alla colonizzazione economica del continente, distruggendo i tentativi di “integrazione” della borghesia nazionalista.
Questa linea di precaria coesistenza con governi precedentemente denunciati come facenti parte “dell’asse del male” era appena stata tracciata con difficoltà quando la crisi mondiale gli diede un tremendo colpo. La crisi non ha solo inficiato le basi economiche dei regimi nazionalisti piccolo borghesi, ma anche quelle dei governi “pompieri” di sinistra(Lula, Kirchner, Bachelet), dando loro la prospettiva di una crisi gigantesca e persino di una situazione di dissoluzione politica (Argentina).
Dato che il tracollo mondiale ora in corso esplose in America Latina dopo una serie di bancarotte capitaliste, crisi politiche e rivolte durante l’ultimo decennio, tutte le classi sociali e tutti gli stati l’affrontano in uno stato di estrema tensione. Le esperienze nazionaliste (incluse le loro “versioni radicali”: Chavez, Evo Morales, Correa) hanno nuovamente fallito nel loro tentativo di strutturare uno stato nazionale indipendente e di iniziare un processo di industrializzazione capitalista autonoma, possibile solo distruggendo la supremazia del capitale finanziario ed impiegando come potere politico i lavoratori e i contadini.
Non solo hanno fallito e nemmeno hanno avuto la capacità di creare una borghesia nazionale, ma tantomeno le loro nazionalizzazioni erano in grado di produrre un periodo di transizione verso quell’obiettivo, sotto l’egemonia dello Stato. Le nazionalizzazioni possono solo assumere un carattere rivoluzionario se trasferiscono capitale accumulato dall’oligarchia finanziaria alla nazione e se pongono al potere gli sfruttati. L’utilizzo di fondi dello stato per indennizzare il capitale nazionalizzato, d’altro canto, blocca ogni possibilità per uno sviluppo indipendente e obbliga la nazione a maggiori sacrifici, il capitale straniero buttato fuori dalla sfera dell’industria, torna sotto forma di capitale finanziario , salvando la spesa del debito pubblico.
Il nazionalismo ha usato le nazionalizzazioni non per trasformare la classe lavoratrice in classe governante, ma piuttosto per impedire la sua organizzazione indipendente e per soggiogare i suoi leaders alla tutela dello Stato, avvalendosi di una demagogia nazionalista, tanto quanto della repressione. La burocrazia “nazionalista” non ha mai perso l’occasione di tenere ben riforniti i propri portafogli, cadendo molto frequentemente in scandali di corruzione, come denunciato in Venezuela e in Bolivia, dove le nazionalizzazioni di Evo Morales non sono stati un atto di sovranità contro la penetrazione imperialista, al contrario gli hanno facilitato le cose.
Secondo Evo Morales le multinazionali petrolifere “sono ora nostre partner”. Ma questo lontano dall’aprire un periodo di prosperità e cooperazione pacifica, approfondisce l’integrazione dell’America Latina nell’economia mondiale e nella sua crisi. La crisi capitalistica mondiale, che nel XX secolo ha favorito l’emergere dei movimenti e governi nazionalisti, adesso in questa nuova fase di bancarotta internazionale generalizzata, minaccia di diventare la loro tomba. Il fallimento del nazionalismo restituisce immutabilmente alla rivendicazione degli Stati uniti socialisti dell’America Latina, una federazione di governi operai e contadini.
9. Il ritiro del blocco contro Cuba potrebbe essere una vittoria storica per questo paese, per aver superato il sabotaggio imperialista, anche a costo di un prezzo molto alto. Ma questo ritiro fa parte di un accordo internazionale che intende risolvere le contraddizioni nello sviluppo di Cuba per mezzo della restaurazione del dominio del capitale. La questione è, chi orienta l’interscambio con l’economia mondiale che necessita all’economia di Cuba: la burocrazia o i lavoratori delle città e della campagna? Questo porta ad una ancor più importante domanda; chi deciderà delle relazioni di oppressione tra gli Stati Uniti e l’America Latina: i governi piccolo borghesi o l’alleanza tra operai e contadini?
La crisi mondiale ha messo in chiaro tutte le relazioni storiche tra imperialismo yankee e America Latina. Le condizioni storiche per l’abolizione della sottomissione semicoloniale sono a portata di mano, ma questo intacca gli interessi della classe capitalista nativa e di una frazione della piccola borghesia che da per scontato che ha già raggiunto le sue aspirazioni sociali.
La borghesia latino americana si è piazzata alla testa di un’operazione di salvataggio per le relazioni semicoloniali, per mezzo dei loro governi di centro sinistra. In un tempo relativamente breve questa operazione è condannata a fallire. La minima autonomia nazionale cercata dai governi latino americani sarà spazzata via dalla crisi mondiale o dai tentativi dell’imperialismo americano di riconvertirsi nell’asse controrivoluzionario della soluzione della crisi. Il destino della Rivoluzione Cubana è nelle mani della rivoluzione socialista dell’America Latina.
Ma la crisi polita politica coinvolge i governi di centro sinistra nel risveglio del loro supporto di base, il governo di Lula in Brasile.
Mentre l’ex operaio del nord viaggia attraverso tutto il mondo nella veste di risolutore di tutti i problemi, lui ha una bomba a tempo piazzata nella politica del suo paese. Gli enormi guadagni del commercio sono cose del passato, negli ultimi pochi mesi il paese ha registrato una caduta delle entrate fiscali. I sussidi concessi alla grande industria e al capitale finanziario dal Governo Lula ammontando a miliardi di dollari in “cancellazione di tasse” e si stanno mangiando le riserve di valuta estera. Questo apre la prospettiva alla crisi finanziaria (cessazione dei pagamenti) e alla catastrofe sociale. Un crisi politica monumentale nei lavori della successione presidenziale del 2010. Lula e il suo apparato (incluso il suo precandidato Dilma Roussef) si stanno preparando proponendo una coalizione di fronte popolare estesa verso destra senza limite, con la quale affrontare i candidati della borghesia. Un’espressione di questa crisi sono le percentuali sopra il 10% attribuite dai sondaggi d’opinione elettorali al PSOL – con la candidata Heloisa Helena – una etichetta sotto la quale si tiene insieme una coalizione di tendenze di sinistra e movimentiste, che sono servite come modello per avventure politiche anche in altri continenti (per l’NPA in Francia, prima di tutto). Questo fenomeno transitorio può comunque creare un terremoto politico e può essere spiegato dal brutale sventramento del PT (e la burocratizzazione della CUT), più che dalle intrinseche virtù del modello “partito-fronte” del PSOL, senza programma e basato su accordi tra piccoli apparati di sinistra e gruppi parlamentari. Queste posizioni in realtà nascondono una prospettiva che cerca di chiudere la crisi con un programma borghese (in Brasile, la riduzione dei tassi d’interesse, una rivendicazione di tutta la borghesia, e svalutazione monetaria) un partito con un regime interno burocratico e personalista e il sacrificio di ogni vestigia di indipendenza di classe, in aperta alleanza con la borghesia e i partiti clericali (Heloisa Helena, per esempio, è contro il diritto all’aborto). Questo “alleanzismo” spostato a destra è la naturale conseguenza per un partito di tendenze, che ripudia l’organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori e la lotta per la coscienza socialista della classe lavoratrice, da rimpiazzare con gli accordi fra i “capitani”. Al PSTU del Brasile non resta che scegliere tra difendere l’indipendenza di classe o sacrificarla in nome del “fronte di sinistra” guidato dal PSOL e dominato dall’alleanza con l’ombra della borghesia. I rivoluzionari e l’avanguardia di classe internazionale devono combattere il rilancio dell’idea del “partito omnibus” (un anti partito con la forma di un partito) e anche con più forza quella di un internazionale interclassista e priva di programma, il Social Forum mondiale (WSF), che è finito completamente integrato nelle politiche borghesi ed imperialiste nel suo principale esempio, il PT in Brasile, presidente e ospite del WSF in varie edizioni.
Un nuovo stadio delle mobilitazioni degli sfruttati si vede all’orizzonte in America Latina. La lotta per i bisogni primari (salari, difesa del posto di lavoro, accesso alle terre e le principali risorse naturali) esce alla ribalta, sotto l’imperiosa necessità della conquista della indipendenza politica dal nazionalismo borghese e piccolo borghese, per un partito operaio indipendente (rivoluzionario) e per la riorganizzazione sociale a mezzo di una nuova fondazione socialista attraverso il potere degli sfruttati stessi.
La restituzione di tutte le risorse naturali ed economiche, l’unità continentale per valorizzarle - battaglia più volte messa in campo e distrutta del nazionalismo – devono essere conquistate con i mezzi dell’unità socialista, il ponte traverso il quale la lotta delle masse latino americane potrà unirsi alla battaglia anticapitalista degli sfruttati di tutto il mondo. La preparazione della rivoluzione socialista in America Latina ha fatto un lungo percorso storico, con esperienze antimperialiste profonde, come la rivoluzione cubana. L’incrociarsi tra la crisi mondiale e l’esaurimento delle esperienze nazionaliste permetterà di chiudere questa tappa storica. È così che il socialismo rivoluzionario determina le sue posizioni verso l’imperialismo e i suoi agenti da un lato e con i tentativi nazionalisti dall’altro, e si propone come candidato alla lotta per il potere politico. L’obiettivo più urgente in America Latina è costruire un raggruppamento socialista di forze nel quadro della crisi mondiale.
10. Il CRQI ha messo in evidenza che si è manifestato un processo di “americalatinizzazione” della stessa Europa, non solo nel senso di un rapido deterioramento delle condizioni sociali e dell’esistenza di ghetti e di zone di miseria e di repressione poliziesca da terzo mondo nelle stesse metropoli, ma anche nel senso di una tendenza crescente alla ribellione delle masse oppresse, in particolare da parte di una nuova generazione di lavoratori precari e sottopagati, come evidenziato dalla rivolta delle banlieue francesi nel 2005 e dalle combattive mobilitazioni contro il CPE sempre in Francia nel 2006, fino alla mobilitazione della gioventù in Grecia nel 2006-07 contro la privatizzazione dell’università (in accordo alle direttive della UE) e alla rivolta del dicembre 2008.
La nuova ondata di radicalizzazione ha un andamento contraddittorio ma ascendente e si scontra con i vecchi apparati burocratici della socialdemocrazia e dei partiti comunisti stalinisti riciclati. L’esperienza disastrosa dei governi socialisti-liberali, di “terza via”, di centrosinistra o di “sinistra plurale” in Gran Bretagna, Italia, Francia, Grecia e altrove ha screditato la sinistra tradizionale e i suoi satelliti della cosiddetta sinistra radicale. E’ sorto un nuovo spazio politico per politiche rivoluzionarie.
Mentre le masse si spostano a sinistra, le forze centriste che hanno esaurito il loro potenziale storico facendo nel recente passato i reggicoda delle burocrazie, tentano oggi di intercettare questi strati di nuovo radicalizzazione spostandosi ancora più a destra. Un certo nunero di “partiti o fronti anticapitalistici larghi” sono sorti in questo periodo: lo Scottish Socialist Party (SSP), Respect in Gran Bretagna, L’Alleanza rosso-verde in Danimarca, il Blocco di sinistra in Portogallo, e da ultimo il Nuovo Partito Anticapitalista in Francia. I partiti riformisti parlamentari come Rifondazione comunista in Italia e SYRIZA in Grecia sono di solito inclusi in questa lista. Molti di questi partiti o fronti “anticapitalistici” originariamente di estrema sinistra, hanno compiuto delle svolte aperte verso il riformismo entrando a far parte del Partito della sinistra europea (il Blocco di sinistra, Respect). Altri hanno conosciuto crisi devastanti e scissioni. E’ il caso di Respect, del SSP e di Rifondazione comunista in Italia, a lungo considerata come la forza guida della sinistra radicale e anticapitalistica in Europa prima del tracollo seguito al tradimento della partecipazione al governo Prodi.
Il NPA di Olivier Besancenot in Francia, fondato formalmente nel febbraio 2002 per iniziativa della LCR che si è auto dissolta, sostiene il raggruppamento di diverse forze e tendenze di sinistra per andare oltre le vecchie divisioni storiche fra le opposte correnti del movimento operaio. Evitando accuratamente la demarcazione fra rivoluzione e riforme, parla di “trasformazione rivoluzionaria della società” e proclama come suo obiettivo strategico il “socialismo del ventunesimo secolo”. Non è solo un riferimento adulatorio a Cavez ma una consapevole rottura di continuità con la Rivoluzione dell’Ottobre 1917 e con la trazione del comunismo bolscevico e del trotskismo. Il rigetto della dittatura del proletariato, già compiuto dalla LCR anni addietro, è ora completo. Se questo rigetto era stato compiuto col pretesto che questa nozione era stata discreditata dallo stalinismo, ora è diventato di una chiarezza cristallina che questo rifiuto è motivato soprattutto da un adattamento alla democrazia parlamentare borghese, che il NPA vuole estendere e completare con una combinazione di rinnovate istituzioni parlamentari di una democrazia rappresentativa fondata sulle elezioni a suffragio universale e di democrazia diretta dei movimenti sociali dal basso.
I problemi dell’attuale esplosiva situazione francese ed europea sono affrontati dall’angolo di visuale di questa vaga democrazia di sinistra. Il sostegno alle lotte e ai movimenti sociali dovrà riflettersi nell’ascesa elettorale del voto anticapitalistico e i buoni risultati elettorali condurranno a nuove lotte e movimenti sociali. Viene così proposta una combinazione e un’alternanza di elettoralismo e di movimentismo come strategia per l’emancipazione sociale!
Per ciò che concerne l’Unione europea, in evidente contrasto con la sua crisi e le forze centrifughe che minacciano di disintegrarla, il NPA rigetta il programma rivoluzionario dell’unificazione socialista del continente ad opera di una rivoluzione sociale e la formazione degli Stati uniti socialisti d’Europa. Sostituisce questa prospettiva con un appello per un’“Europa sociale e democratica”, avanzando un insieme di rivendicazioni antiliberiste che lasciano intatto il quadro capitalistico e antepone alla rivendicazione dell’Europa socialista la proposta per una futura Assemblea costituente europea “eletta democraticamente e suffragio universale”…
Nessuna trasformazione rivoluzionaria della società in Francia, in Europa o altrove nel mondo sarà mai conquistata per mezzo di questo feticcio di retorica democratica.

11. L’impatto esplosivo della crisi mondiale sulla vita e le lotte degli sfruttati e degli oppressi produce cambiamenti rapidi e inaspettati nei movimenti e nella coscienze delle masse. Non ci sono processi lineari di radicalizzazione.
I licenziamenti di massa, la chiusura di fabbriche e la disoccupazione creano inizialmente confusione, frustrazione e un’attitudine difensiva. Le burocrazie sindacali sono completamente incapaci e non vogliono far fronte alla disfatta capitalistica o anche solo organizzare una mobilitazione parziale contro di essa. Esse fanno affidamento sui capitalisti e sullo Stato per impossibile compromesso fra concessioni e arretramento, abbandonando molte delle conquiste e delle posizioni raggiunte attraverso lunghe lotte dal movimento operaio. Trotsky ha analizzato che “sono necessarie circostanze eccezionali, indipendenti dalla volontà degli individui e dei partiti, affinché il malcontento rompa le catene dello spirito conservatore e le masse si lancino in un’aperta ribellione. Di conseguenza, rapidi cambi nell’opinione e nei sentimenti delle masse in tempo di rivoluzione non traggono origine dall’elasticità e dalla flessibilità della psiche umana ma, al contrario, dal suo profondo conservatorismo. Le idee e le relazioni sociali sono in cronico ritardo in rapporto alle nuove condizioni obiettive fino al momento in cui questa collassano come in un cataclisma […] le classi acquisiscono coscienza dei problemi posti dalla crisi e le masse si orientano nell’azione col metodo di approssimazioni successive” (Storia della rivoluzione russa). Questo movimento di radicalizzazione può rovesciarsi quando “la spinta viene interrotta da ostacoli oggettivi”.
Oggi ci troviamo in una fase di radicalizzazione che non è stata sconfitta dalla reazione o da ostacoli insormontabili. In una transizione in cui è assolutamente necessario per i partiti rivoluzionari studiare nei dettagli ogni movimento particolare dello sviluppo della crisi economica e politica, ogni manifestazione della resistenza dei lavoratori e delle masse popolari, dalla piccola lotta difensiva alle mobilitazioni di massa, scioperi generali e ribellioni come quelle a cui abbiamo assistito in Grecia o in Guadalupa, per intervenire sistematicamente nel movimento, stabilire un dialogo costante con le masse e le loro aspirazioni, vecchie e nuove, avanzando il programma necessario per lo sviluppo e la vittoria della lotta, e preparando con il metodo della propaganda, dell’agitazione e dell’organizzazione la lotta rivoluzionaria per il potere dei lavoratori e per il socialismo.

12. La questione di un Programma di rivendicazioni transitorie che in modo sistematico tenda a mobilitare e a unire le masse fino alla lotta rivoluzionaria per la conquista del potere è oggi più importante che mai. Le rivendicazioni centrali che possono articolarsi internazionalmente la lotta sono:
- Espropriazione delle banche senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori;
- Proibire i licenziamenti e la distruzione di posti di lavoro; occupazione delle aziende che chiudono, apertura dei libri contabili al controllo dei lavoratori, espropriazione della grandi compagnie, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori;
- Aumenti salariali subito, per la scala mobile dei salari e delle ore di lavoro; riduzione d’orario e lavoro per tutti! salario per i disoccupati! Stessi diritti per lavoratori indigeni e migranti!
- Via i governi del capitale! No alla collaborazione di classe e alla condivisione nella gestione della crisi con i rappresentanti dei capitalisti! Per il potere dei lavoratori – la dittatura del proletariato – e per una uscita socialista dalla crisi!
- Basta con l’imperialismo e le sue guerre di occupazione! Via le truppe imperialiste dall’Iraq e dall’Afghanistan! Smantellare la NATO e tutte le basi imperialiste! No all’Unione europea imperialista, per gli Stati uniti socialisti d’Europa! Per l’unità socialista dell’America latina! Per la Repubblica socialista mondiale!

13. La crisi mondiale sta aumentando tutte le tendenza all’esplosione sociale ponendo all’ordine del giorno apertamente la questione della transizione della rivoluzione sociale e alla trasformazione della società, o la barbarie.
La rivolta greca sintetizza molti dei problemi da risolvere in questa fase di transizione. E’ chiaro che la rivolta non è stata diretta da nessun partito politico o forza organizzata sulla base di un progetto e di un programma politico. Ma è falso vederla solo come un’espressione della spontaneità della gioventù che si ribella alla repressione della polizia. Ci sono stati tentativi coscienti di forze d’avanguardia di arrivare a uno sciopero generale politico. Molte esperienze di lotte passate sono state riattualizzate o rimpiazzate; in molte occasioni le burocrazie sono state sfidate e scalzate dagli uffici locali. E’ stato sfidato, oltre al il monopolio della forza da parte dello Stato, anche il controllo della classe dominate sull’informazione, sui mass media, sulla cultura. Per la prima volta, le richieste di riorganizzazione delle relazioni sociali su nuove basi socialiste, di riappropriazione della vita in tutte le sue manifestazioni si sono manifestate in molte occupazioni, in molte assemblee generali e in molti centri d’iniziativa del movimento.
Ma i limiti della rivolta di dicembre sono diventati presto visibili: mancava un’organizzazione politica rivoluzionaria delle masse dell’avanguardia in grado di unificarle e di incanalare l’energia della ribellione verso un “assalto al cielo” rivoluzionario. Il PASOK, l’opposizione ufficiale borghese di centrosinistra, era naturalmente ostile alla ribellione, spingendosi a volte a destra del governo di destra rimproverandolo di essere “incapace” di imporre un vero stato di polizia. La burocrazia sindacale del PASOK del GSEE (Confederazione generale del lavoro) ha boicottato lo sciopero generale e si è opposta alla rivolta. Il KKE stalinista è stato al fianco dello Stato borghese come partito d’ordine. Le masse ribelli hanno molto dietro di se le altre forze di sinistra, compresi i network degli anarchici. Le tendenze conservatrici sono apparse anche nell’estrema sinistra, che ha voltato le spalle all’azione diretta preferendo la formazione di blocchi elettorali in vista delle elezioni. Mentre il quotidiano della borghesia consapevole dei suoi interessi, il francese “Le Monde” scriveva con timore che la Grecia era rimasta senza lo Stato (10 dicembre 2008), la classe operaia non era preparata e pronta dal punto di vista politico e organizzativo per rovesciare il regime traballante della borghesia e conquistare il potere politico e prendere in mano il proprio destino.
Tuttavia, la rivolta di dicembre in Grecia non è stata sconfitta, una prova generale per il prossimo passo dello scontro in Grecia, in Europa e internazionalmente; una fonte di ispirazione per i rivoluzionari di tutto il mondo per i prossimi scontri storici.
La crisi mondiale ha posto all’ordine del giorno le questioni: “chi pagherà la crisi?” e “chi governerà la società?” La risposta potrà arrivare solo da un punto di vista mondiale. Ora più che mai il compito è posto chiaramente: abbiamo bisogno di un’Internazionale rivoluzionaria dei lavoratori, della Quarta Internazionale rifondata!


Coordinamento per la Rifondazione della IV Internazionale
Consiglio esecutivo

Nessun commento: