04/04/09

La crisi industriale nelle Marche ed a Fabriano: limiti e rivendicazioni del movimento operaio

LE ORIGINI DELLA CRISI
La dilagante crisi industriale delle Marche ed in particolare del loro “capoluogo industriale” Fabriano (patria degli elettrodomestici di mezzo mondo) è da ricercare nelle scelte dei grandi gruppi industriali presenti e delle amministrazioni locali da essi pilotate. L’attività del distretto industriale di Fabriano è stata improntata fin dal passato sulla grande produzione monosettoriale a bassa tecnologia. Fabriano come Torino, dunque, per alcuni aspetti; ma a Torino la grande produzione era solo prevalente, non esclusiva come nella città di Fabriano. Qui, in funzione di tale tipologia industriale, si è sviluppata l’intera città, sono stati indirizzati i servizi, sono state orientate le iniziative e gli interessi. Il modello civile-industriale Fabrianese e, più in generale marchigiano, ha fatto scuola tra la grande borghesia di mezza Europa: il congelamento forzato di altri tipi di economia, l’ostruzionismo nei confronti di nuova concorrenza, il rigido conservatorismo culturale, la pacificazione sociale più totale. Quest’ultimo aspetto, particolarmente nefasto per il movimento operaio, è stato ottenuto da una parte con la cooptazione ed il foraggiamento delle forze sindacali più moderate e filo padronali, dall’altra con l’infiltrazione nelle istituzioni e nei pricipali partiti di agenti della borghesia locale designati direttamente dai grandi gruppi industriali. Ne è un chiaro esempio il caso Merloni: la famiglia fabrianese, proprietaria di alcuni gruppi più grandi in Europa, ha infatti schierato nelle file del PD uno dei suoi manager, attualmente sindaco della città, e sua figlia, giunta fino in parlamento. Dall’altra parte uno dei fratelli Merloni fa parte dell’Udc e Casoli, presidente dell’Elica (il maggior produttore di cappe aspiranti al mondo), anch’esso senatore, ma con il PDL.
LE CONSEGUENZE DEL CONTROLLO SOCIALE
Queste scelte, così oculate e studiate da far pensare ad un’unica regia occulta, hanno narcotizzato il movimento operaio, facendogli perdere qualsiasi mordente. In questi tempi di drammatica crisi in cui le aziende già citate e quelle del loro indotto licenziano in massa sia nelle Marche che nel resto d’Italia (Torino, Gualdo Tadino, Reggio Emilia etc..), ci si aspetterebbero ben altre reazioni. Purtroppo gli operai e le loro famiglie, pur rimanendo di punto in bianco senza lavoro e senza prospettive per il futuro (per operai specializzati nelle catene di montaggio elettrodomestici o similari è difficile attualmente riciclarsi, soprattutto in un territorio dove la disoccupazione galoppa a velocità disarmante), pur dovendo spesso ricevere ancora stipendi arretrati mai corrisposti, pur beneficiando di ammortizzatori sociali ridotti nel tempo e nella cifra (a volte persino assenti), non danno reali segni di ribellione. Questa lunga “domenica delle salme” ha fatto si che nel momento del bisogno ci si trovasse sprovvisti di qualsiasi struttura organizzata di conflitto, di qualsivoglia formula associativa o sindacale di lotta. La reazione del movimento operaio si è purtroppo limitata a circoscritte manifestazioni, con in testa a volte presenti gli amministratori locali dei partiti borghesi o i burocrati di Cisl e Uil, segno evidente della mancata rottura con i riferimenti politici del passato che invece ci si sarebbe augurati. Ma quello che più lascia perplessi sono i pochissimi passi avanti compiuti nelle piattaforme di gran parte del movimento. Le rivendicazioni dei sindacati e dei partiti si limitano infatti a generiche richieste di finanziamenti pubblici alle aziende, edulcolorate critiche sulle scelte industriali dei capitani d’industria, poco fantasiosi piani di rilancio, lieve prolungamento dei periodi di corresponsione dei sussidi per i lavoratori ed i disoccupati.
COMPRENDERE A FONDO LA CRISI
La scelta di tale tipologia industriale ha forse “funzionato” per alcuni decenni: ha portato lavoro e benessere diffuso, ma ha anche creato le premesse per un futuro drammatico per i lavoratori del comprensorio. Ad aggravare le situazione c’è stato il tacito avallo (quando non il favoreggiamento), da parte della sinistra marchigiana (Prc e Pdci) delle delocalizzazioni della produzione nell’Est Europa, nel Sud America e così via, a favore dei grandi industriali. Infine la crisi mondiale della finanza e dei consumi, che ha inferto al territorio un colpo ancor più grave che altrove, ma solo perchè era già presente, seppur non così evidente, un cancro maligno nell’economia delle industrie marchigiane. Oggi il futuro dei lavoratori della zona è tutt’altro che roseo. La crisi, già drammaticamente evidente, è secondo noi addirittura sottovalutata e la situazione è destinata, nei prossimi mesi, a precipitare nel vortice di un cupo circolo vizioso. Già le numerose piccole aziende dell’indotto Merloni o Elica stanno dando segni di cedimento. Tutti i posti di lavoro precari sono già stati persi. Le migliaia di lavoratori in cassa integrazione rischiano di non essere reintegrati. Il commercio e l’edilizia vivono uno stallo senza precedenti. Le banche locali, una volta vere potenze finanziarie, sono sull’orlo del tracollo. Il disagio sociale e giovanile aumenta di pari passo con la disoccupazione e la mancanza di prospettive per il proprio futuro. La diminuzione ufficiale dell’occupazione sarà solo di un terzo di quella reale non verranno contabilizzati i posti di lavoro dell’emarginazione di sempre ( non verranno rinnovati i lavori con contratti temporanei ,verranno licenziati i lavoratori legati alle agenzie, verranno licenziati i dipendenti di aziende con meno di 15 occupati); questi esclusi non avranno ammortizzatori sociali e non avranno nemmeno la consolazione di far parte della statistica dei licenziati.
La prospettiva per i prossimi anni appare drammatica ma già dai prossimi mesi si comincerà a percepire il danno ed il disagio sociale.Siamo di fronte ad una vera crisi del Capitalismo. Una crisi profonda che non può essere curata con deboli ricette di matrice socialdemocratica sul rilancio dell’agriturismo, dei circuiti museali e dell’artigianato di bottega. Propositi utili ma assolutamente insufficienti (e comunque totalmente disattesi anche da chi li propone) di fronte allo sfacelo economico a cui siamo davanti. Dobbiamo invece approfittare dell’unica occasione positiva che ci offrono le grandi crisi economico-sociali capitaliste e che rappresenta anche l’unica via d’uscita. Il mettersi a nudo dei fragili meccanismi del mercato e della finanza ci permettono infatti di evidenziare i limiti del modo di produzione in cui viviamo e di innalzare il livello del conflitto sociale. Ci danno la grande opportunità di indicare al proletariato coinvolto le soluzioni alternative al pensiero unico. Di disegnare una strada d’uscita dalla crisi tramite rivendicazioni rivoluzionarie in senso anticapitalista.
PER UNA PIATTAFORMA DI CLASSE
Se la crisi è strutturale le soluzioni per uscirne devono essere strutturali. Se ad oggi non vi sono spiragli di luce, se non esistono proposte reali per superare la crisi ma solo per tamponarla, l’unica soluzione è pensare ad un nuovo modo di produrre, consumare, vendere, vivere. Il Capitalismo, che ci hanno inculcato in testa come assioma indiscutibile, come punto di partenza assoluto su cui appoggiare tutte le nostre teorie ed analisi economiche e sociali, ha evidenziato di non essere invincibile. Noi dobbiamo dimostrare che non è insuperabile. L’unica soluzione pragmatica, realistica, definitiva del problema affrontato è la nazionalizzazione, senza indennizzo e sotto controllo operaio, delle aziende che chiudono o che licenziano. Alcuni esperimenti portati avanti in altre parti del mondo o in altri momenti storici e semplici analisi oggettive dei fatti lo dimostrano: è possibile e produttivo, per l’emancipazione economica e sociale del proletariato, l’autogestione della produzione. Il movimento deve compiere una grande dimostrazione di maturità e fare proprio questo fondamentale punto fermo della propria attività politica. Capire che rappresenta uno dei modi più efficaci per inoculare il germe del comunismo nel ventre del capitalismo.
L’UTOPIA DELLA “RIFORMA” DEL CAPITALE
Per fare questo i lavoratori hanno bisogno di nuovi referenti politici: loro stessi. Attraverso tutti gli strumenti realmente democratici di autorganizzazione e partecipazione devono affrancarsi dalle attuali forze politiche e sindacali di riferimento, complici per troppo tempo, consciamente e non, del loro sfruttamento. Devono rompere con l’ideologia dominante e contribuire a creare un’unità sindacale nella lotta (come sta avvenendo coll’interessante esperimento del Patto di Base) ed una rappresentanza politica autonoma dei lavoratori, a partire dal territorio (come sta cercando di fare il PCL, anche Fabriano e dintorni). Attualmente le uniche proposte utopistiche e totalmente fuori della realtà ci sembrano invece proprio quelle portate avanti da quella parte della sinistra socilademocratica che si spaccia per “pratica” o “realista”. Che vuole da una parte ergersi a rappresentante del mondo del lavoro, dall’altra dialogare con il padrone e con le forze politiche più reazionarie del paese. Oggi gli spazi di manovra per finanziare le aziende private con i soldi dei contribuenti e nello stesso tempo garantire gli ammortizzatori sociali non ci sono più. Strizzare l’occhio ai potentati locali e dare il contentino ai sindacati non è più possibile. Fomentare la devastazione del territorio tramite le grandi opere per gratificare i grandi costruttori e creare posti di lavoro (precari) facendo quadrare i conti e mantenendo la pace sociale è sempre più difficile. Oggi le figure anacronistiche sono loro, i “vetero-capitalisti”.
Antonio Angeloni
Titto Leone

1 commento:

G.F.Camboni ha detto...

ho letto l'articolo dei compagni Antonio Angeloni e Titto Leone. Sono d'accordo con loro che "la crisi è addirittura sottovalutata". La realtà precede sempre il pensiero e le reazioni delle masse lavoratrici avvengono, inizialmente, in modo molecolare.
Guardate la Francia : due scioperi generali dall'inizio dell'anno organizzati dalla burocrazia sindacale e appoggiate dalla sinistra borghese (il Partito socialista) e dalla sinistra opportunista, con il Nuovo Partito Anticapitalista in testa (la ex Lcr). Nello sciopero generale di qasi due mesi fa era massicia la presenza del pubblico impiego, ma i giornali evidenziavano una presenza degli operai dell'industria maggiore che nel recente passato. In quest'ultimo sciopero la presenza degli operai dell'industria era aumentata notevolmente(nella valutazione dell'orientamento operaio in Francia dovete tener conto che nei primi anni '90 il Fronte di Le Pen nelle fabbriche era supriore al PCF). Ma un abisso separa lo sciopero organizzato dalla burocrazia sindacale dall'ira sociale che agita la Francia. Neanche nel giro di un mese i lavoratori hanno preso in ostaggio sei dirigenti d'azienda ed un milirdario in automobile.Sarkozy, ieri in trasferta, per la campagna elettorale, nella cittadina di Chatellerault(34 mila ab.), nel Poitou-Charentes, si è trovato davanti a 7000 manifestanti e alcuni di essi hanno lanciato le uova e le bottiglie alla polizia che ha risposto con i lacrimogeni. Il Sole24ore, di oggi, ha commentato così il fatto:" Per qualche ora, in questa cittadina d 34 mila abitanti pattugliata da quasi un migliaio di agenti, si è creato un microcosmo da incubo per l'Eliseo". Gli eventi procederanno in questo modo: mobilitazioni sindacali che scapperanno di mano alla burocrazia e azioni di lotta estranee alla burocrazia sempre più numerose e frequenti.
Un dato significativo di come procedono le cose è che un sondaggio sulle mobilitazioni in Guadalupe rilevava che un francese su cinque solidarizzava con la rivolta. Nonostante le provocazioni padronali e della burocrazia sindacale inglese con la demagogia nazionalista per il momento sono stoppate.
Bisogna seguire tutti movimenti di rivolta piccoli e grandi in Europa ed indicarli come esempi. I rivoluzionari devono seguire le dinamiche dei settori di salariati influenzati dalla burocrazia, i lavoratori organizzate dal indacalismo di "base", e quelli che fuoriescono dalle strutture organizzate dove esplode la collera e ci si batte sapendo che si ha da perdere solo le catene.
Nei momenti di crisi totale ed inarrestabile le esplosioni che rompono gli schemi saranno sempre più numerose. I rivoluzionari devono saper cogliere le potenzialità rivoluzionarie.
Ma il passaggio dalla potenza all'atto avviene solo se c'è l'iniziativa del partito rivoluzionario.
Per come vanno le cose dalla Francia all'Irlanda,dalla Grecia all'Ucraina ed agli altri paesi dell'est è necessaria un'iniziativa sul piano europeo del Cirqi, anche per far fallire la campagna massmediatica favorevole al Nuovo Partito Anticapitalistica ed al suo "simpatico e telegenico" leader O. Besancenot (un giovane Bertinotti, meno provinciale e meno angosciato bigotto del Bertinotti vecchio).